Sabato scorso 23 e domenica 24 settembre 2017, don Luciano Marchetti, nuovo pievano dell’Unità Pastorale di Borgo San Lorenzo, subentrato a don Maurizio Tagliaferri destinato alla Chiesa dell’Immacolata di San Martino a Montughi, durante la Messa vespertina di sabato e la Messa della domenica al centro Giovanile del Mugello dedicata ai malati nella “Giornata della Fraternità”, ha letto il suo discorso di presentazione ai molti parrocchiani presenti alle due cerimonie religiose. Ecco il testo di don Luciano.
“-Magnificat. L’anima mia magnifica il Signore Gesù, Crocifisso e Risorto, perché ha compiuto, compie, compirà meraviglie nella storia, nella Chiesa, in voi, in me.
Sono felice di vivere, di essere cristiano e di essere prete.
Sono felice di essere prete da 26 anni, di cui i primi 6, indimenticabili, vissuti proprio qui a Borgo San Lorenzo come cappellano, poi 4 a San Casciano Val di Pesa, mio paese natale, come co-parroco, 14 come parroco a Barberino Val d’Elsa e gli ultimi 2 a San Piero in Palco a Firenze, nel popoloso Quartiere di Gavinana. Quattro comunità dove ho vissuto esperienze straordinarie, formidabili, incancellabili.
Sono felice di essere stato chiamato inaspettatamente dal Cardinale Arcivescovo a diventare parroco dell’Unità Pastorale di Borgo San Lorenzo. Voglio essere per tutti voi, insieme a don Antonio e don Matteo, miei preziosi, giovani e dinamici collaboratori, un prete stupito e innamorato del Signore Gesù, del suo Vangelo, della sua Chiesa. Chiesa chiamata, oggi più che mai, a donare grazia, misericordia, speranza.
Desidero veramente essere il parroco di tutti, attento alla custodia di chi c’è e dedito alla ricerca di chi manca. Il Signore mi doni un cuore grande, capace di amare e di accogliere tutti: piccoli, giovani, adulti e anziani, sani e ammalati, stranieri, credenti e non credenti.
Ringrazio dell’accoglienza anzitutto don Maurizio, mio compagno di Messa, che nei giorni scorsi mi ha reintrodotto in questa grande e bella Comunità cristiana. Volendo dire con un’immagine come mi sento, posso dire che sono arrivato a Borgo con due valigie (in realtà molte di più; lo sanno bene don Antonio e quanti mi hanno aiutato nel trasloco). Ora, però, mi presento a voi con due valigie: una valigia piena di ricordi e l’altra piena di sogni. Nella prima valigia non ci possono che essere i ricordi, non fotografie scolorite ma esperienze vive a partire dal primo anno di sacerdozio col pievano don Rodolfo e, poi, gli altri cinque con l’infaticabile don Giancarlo per un’esperienza pastorale intensa e felice: i soggiorni coi giovani e le famiglie a Cavallico, quelli coi ragazzi a Figliano, la Giornata Mondiale della Gioventù del 1993 a Denver negli Stati Uniti, tutti gli incontri personali e comunitari che hanno tanto arricchito il mio ministero. Ricordo che proprio vent’anni fa, dopo aver lasciato Borgo a malincuore, a chi mi domandava: “Don Luciano, sei stato bene nel Mugello? Hai amato?”, io, senza dir nulla, aprivo il mio cuore pieno di nomi, i vostri nomi.
Nella seconda valigia, i sogni: ci sono sogni che ritornano continuamente e danno forma alle mie scelte, si confrontano con la mia decisione di servire la Chiesa, decisione continuamente rinnovata in questi 26 anni. I sogni mi impediscono di sentirmi arrivato, di adagiarmi, di crogiolarmi nel passato e mi invitano e mi obbligano a inventare e a sognare. Per tutti e con tutti. Il sogno, anzitutto, di una Chiesa giovane, libera, fedele al Vangelo, aperta al dialogo, rispettosa degli ordinamenti delle istituzioni e docile al soffio dello Spirito. Perché questo si realizzi, sogno uno stile e un fare pastorale che posso descrivere con tre aggettivi: lento, dolce e profondo.
Innanzitutto lento, che non significa lentezze – ce ne sono già tante -, ma in un mondo che corre all’impazzata, e non sa verso dove, nella confusione delle famiglie, delle parrocchie, delle associazioni, dove sembra che dobbiamo partecipare a una gara, mi sembra che assumere un atteggiamento di lentezza, saggia lentezza, sia più produttivo, perché le cose che si fanno velocemente non hanno gusto, perché le radici affondano lentamente, perché tutti i misteri grandi della vita sono caratterizzati da una lentezza. Gli uomini non sono riusciti – e non so se ci riusciranno in futuro – a comprimere i nove mesi di gravidanza perché nasca un bambino. Ci vogliono nove mesi, anche per quelli più impazienti, anche per quelli che vorrebbero un bambolotto in braccio nel giro di 24 ore; non ci sono ancora pillole che possano comprimere questo tempo, per dire che la natura, che è madre, che è una traccia di sapienza, agisce in questa maniera. Non c’è fretta. Lento per me vuole dire distanziarsi da certe gare, che a volte succedono anche nella nostra Chiesa, certi stili appariscenti ma senza contenuto, e assumere una cadenza più lieve, anche per non penalizzare quelli che non sanno correre, perché se corriamo anche nella vita della Chiesa, come si corre nella vita della nostra società, noi perdiamo tante persone, noi penalizziamo quelli che non ce la fanno. Allora lento vuol dire: camminare col passo di quelli che sono più deboli, “col passo degli ultimi”, avrebbe detto Don Tonino Bello.
Il secondo aggettivo che designa il mio sogno di fare pastorale è dolce. Dolce potrebbe sembrare una sdolcinatura ma il beato Aelredo Abate nella preghiera che rivolgeva al Signore, diceva: “Ritengo che giovi loro più essere condotti con amore piuttosto che con il dominio”. Lo dico sorridendo, ma spesso anche i fedeli reclamano un pugno duro, un pugno di ferro, sempre per gli altri però, non per se stessi (“Don Luciano, dovrebbe essere più duro, più esigente!”). Questa scelta probabilmente – perché poi non facciamo altro che esprimere noi stessi – si sposa anche meglio con il mio carattere. Quindi ritengo questo atteggiamento di dolcezza più proficuo, più fecondo rispetto al battere il pugno sul tavolo. D’altra parte, anche chi sovrintende alla famiglia o alla scuola, si rende conto che neanche nei loro ambiti, questo pugno duro non ottiene più gli effetti di una volta ma c’è la persuasione dell’amore. Ho sempre ritenuto questa frase di Madre Teresa di Calcutta una sorta di programma di vita, dove lei chiedeva al Signore: “Fa’ che io abbia per me un cuore di giudice e per gli altri un cuore di mamma”, cioè esigente con sé e clemente con gli altri, anche perché, se esiste un magistero, carissimi fedeli – ma questo vale per voi, perché anche voi, qualunque sia la vostra condizione di vita, svolgete un magistero nei confronti delle persone a voi affidate – questo magistero è quello dell’amore. “Imparate da me – dice Gesù – che sono mite e umile di cuore”. Io vorrei confermarmi in questo stile di dolcezza. Probabilmente, ancora di più sarò criticato, ma ritengo questo magistero della dolcezza, in tempi lunghi, non nell’oggi, fecondo di opere, fecondo di segni, fecondo di frutti.
Infine – e chiudo, state tranquilli – il terzo aggettivo col quale sogno il mio ministero in mezzo a voi è profondo. Profondo significa che questa lentezza – e anche qui siamo controcorrente rispetto alla cultura dominante – e questa dolcezza aiutano a scendere nelle radici, perché la cultura, che è quella di internet, oggi è una cultura estesa, ma superficiale. I nostri figli sanno tutto e non sanno niente: non ricordano un verso, digitano, imparano e dimenticano subito. Allora, profondo è prendere le distanze da queste conoscenze molto epidermiche, superficiali, magari sapendo di meno, ma in una maniera più radicata, in modo tale che il sapere – ovviamente parlo del sapere evangelico – possa affondare le radici nella profondità del cuore, perché poi questi tre aggettivi si chiamano a vicenda: più lento, più dolce, più profondo. E qui esiste una sola profondità: quella del cuore. E quello che non tocca il cuore non cambia, quello che non tocca il cuore non genera energie e non genera conversioni.
Inizio quindi una nuova stagione, un nuovo amore e come ogni innamorato sono certo – come racconta un antico detto – di non incontrare fiumi senza guado. Anche in questa nuova avventura mi faccio avvolgere e sospingere da un augurio che mi è molto caro e che mi ha sempre accompagnato:
“Da prete-parroco sii sempre:
una favola per i bambini,
un sogno per gli adolescenti,
una inquietudine per i giovani,
un fratello per gli adulti,
una carezza per gli anziani,
un elisir per gli ammalati”.
Voi proibitemi di essere un parroco clericale, un funzionario, aiutatemi ad essere un parroco-pastore, ministro della gioia evangelica. Chiedo al Signore che mi aiuti ogni giorno e in ogni incontro ad essere l’uomo delle relazioni profonde, che mi aiuti a non passare mai accanto ad alcuno con un volto indifferente, con un cuore chiuso, con un passo affrettato.
Sogno che la nostra comunità divenga sempre più evangelica, fraterna, responsabile, vivace, simpatica, aperta e missionaria, per procedere più lentamente, più dolcemente, più profondamente sulle orme del Signore Gesù, il grande incantatore dei cuori.
Sogno che la nostra comunità divenga per tutti la fontana del villaggio di cui parlava Papa San Giovanni XXIII, a cui tutti possano abbeverarsi.
“Se io sogno da solo, il mio è soltanto un sogno ma, se sogniamo insieme, il sogno diventerà realtà”. Allora, sogniamo insieme, camminiamo insieme. Da parte mia vi assicuro che, come Maria a Betania, spezzerò sempre il mio vasetto di alabastro pieno di profumo prezioso per il Signore e per voi: ciò che sono è per voi, in gratuità, fantasia e rinnovato stupore.
Mi affido all’abbraccio tenero e affettuoso di Maria, la madre di Gesù, all’intercessione di San Lorenzo e alle vostre preghiere. Grazie - “.
Bentornato a Borgo San Lorenzo caro don Luciano e buon apostolato; noi saremo quà come sempre, - con orgoglio e senza timori reverenziali per nessuno - a scrivere quello che propone la chiesa borghigiana da ormai quindici secoli di storia cristiana.
Teresa
benritrovato e anche dalla mia famiglia tanti auguri
Stefano
Bentornato don Luciano. Auguri