Non tutto ciò che viviamo viene immagazzinato nella nostra memoria, per poi palesarsi quando ne abbiamo bisogno tramite un arcano richiamo, o di tanto in tanto, cogliendoci alla sprovvista. A dir la verità, soltanto minuscoli frammenti di ciò che guardiamo o ascoltiamo torneranno a farci compagnia, presentandosi come immagini, odori, sensazioni. Raramente capita che lunghi periodi vissuti abbraccino il nostro essere per sempre: mi viene in mente la statua del Cristo Redentore posta sulla cima del monte Corcovado a braccia aperte, che guarda inespressiva Rio De Janeiro.
La città, allegoria calzante dell’essere umano, non è mai uguale; un muro cade un altro si alza, un cittadino muore un altro nasce, un pino viene abbattuto un altro viene piantato. La statua invece no: rimane invariata, come i ricordi.
Città e statua, ovvero uomo e ricordi, legati da un filo invisibile che collega i vivi e i morti, perché talvolta solo riportando alla luce ciò che è sepolto è possibile vivere una vita appagante e migliore di quella vissuta in precedenza.
Diventano ricordi perenni gli episodi che lasciano un segno, nella carne e nell’anima, e non fa differenza che siano belli o brutti: il primo ti amo detto e ricevuto, il primo tiro di sigaretta, uno sputo in faccia, un tradimento, la lettera che avvisava della bocciatura. Dev’esserci uno sconvolgimento interiore affinché il vissuto rimanga impresso, e tale sconvolgimento può durare pochi istanti, oppure mesi o anni.
Edith Bruck ha avuto la terribile sfortuna, alla tenera età di tredici anni, di trascorrere un intero anno prigioniera in vari campi di sterminio nazisti. Un anno drammatico, di fame e sangue, paura e sbigottimento, che ancora oggi, a novantadue anni, ricorda nei minimi dettagli. Originaria dell’Ungheria, paese che durante la Seconda guerra mondiale decise di allearsi con le Potenze dell’Asse - Italia, Germania, Giappone -, Bruck, essendo ebrea, subì fin dall’infanzia ripetute discriminazioni. Nella primavera del 1944, a tredici anni, venne deportata ad Aushwitz, e in seguito in altri campi di sterminio. Verrà liberata a Bergen-Belsen, insieme alla sorella, nell’aprile del 1945. Morirono nei campi nazisti sua madre, suo padre e altri membri della famiglia.
Edith Bruck decise di diventare una testimone il giorno in cui cominciò a scrivere il suo primo racconto autobiografico, Chi ti ama così, pubblicato nel 1959 in lingua italiana. L’Italia è il paese dove ha scelto di risiedere dopo aver peregrinato un decennio dalla fine della guerra, e Roma è la città dove attualmente vive. Lunedì scorso, 8 maggio 2023, ha parlato all’Università di Firenze. Il convegno, intitolato Per Edith Bruck, testimone della Shoah e scrittrice, si è focalizzato su alcune delle sue opere più celebri, e sull’importanza di testimoniare.
Edith Bruck come Liliana Segre, e i tanti altri che hanno scelto di raccontare gli orrori vissuti all’interno dei campi di concentramento nazisti. I loro racconti sembrano descrivere luoghi inesistenti e accadimenti mai vissuti, talmente sono duri e crudi.
Parlare di traumi così intensi costa fatica; un conto è lasciare in camera il ricordo, quieto anche se ingombrante nella casa della memoria, un altro è farlo uscire per mezzo delle parole. Lacera il cuore vedere Edith Bruck, ormai anziana, piangere ancora oggi nel raccontare di quando assistette allo schiaffo subìto dal padre, che combatté nella Prima guerra mondiale a fianco del suo paese, da un giovane gendarme che venne in casa per deportare lui e la sua famiglia nel ghetto di Sátoraljaújhely. A nulla valse mostrargli la medaglia d’onore per i meriti ottenuti nell’esercito. O di quando racconta che durante il viaggio verso Aushwitz, nel vagone di un treno provvisto di un unico secchio per i bisogni, sua madre si lamentava e piangeva del pane perduto. La famiglia di Edith era povera, e il pane rappresentava una fondamentale fonte di sostentamento. O di quando, come dopo una lunga gita all’inferno, un cuoco le chiese il suo nome, e non il numero che aveva tatuato al braccio.
L’inferno di Dante si conclude con la frase e quindi uscimmo a riveder le stelle, e forse fu in quell’occasione che Edith capì che c’era speranza, che un giorno non molto lontano avrebbe riacquistato la spensieratezza, e si sarebbe stesa sul prato a guardare il cielo.
Per i sopravvissuti della Shoah, ridare vita ai giorni trascorsi nei campi della morte significa certamente dolore, ma ciò offre a tutti noi, che non abbiamo idea di cosa significhi essere cacciati da casa e finire in luoghi infernali, dove ora siamo vivi e ora no, la grande opportunità di fare coscienza.
Fare coscienza significa conoscere, assorbire, far diventare sangue e carne le esperienze che viviamo. I racconti dei sopravvissuti fanno parte degli episodi che si depositeranno nella memoria di noi ascoltatori per sempre, e ci faranno da guida per fare in modo che il nazismo non torni mai più. Ecco spiegata l’importanza del testimoniare. Bisogna ogni giorno ringraziare coloro che, con impegno e amore per l’umanità, testimoniano.
Le drammatiche esperienze da loro vissute vengono trasmesse, esattamente come i virus, a una platea più ampia. In un certo senso chi ascolta vive egli stesso quei momenti terribili.
Quando i virus contagiano la quasi totalità della popolazione si indeboliscono, fino a diventare innocui. Speriamo che grazie alle testimonianze dei sopravvissuti le idee naziste e fasciste perderanno sempre più forza, e che in futuro si ritroveranno solo sui libri di storia, e non sulla bocca di importanti cariche dello stato.
Grazie Edith Bruck, che la vita ti regali ancora molte gioie.
Autore Paolo Maurizio Insolia