Israele fa fuori Ismail Haniyeh, il capo politico di Hamas. Netanyahu sta combattendo una guerra personale, e non ha intenzione di fermarsi.
Inascoltate le richieste di cessazione delle ostilità da parte dell'Onu, e le sue condanne nei confronti di Israele per i troppi civili palestinesi coinvolti.
E così anche Ismail Haniyeh, il capo politico di Hamas, è stato ucciso. Di lui venne pubblicato un video, qualche mese fa, dove gli veniva riferito che tre dei suoi figli erano rimasti uccisi in un raid israeliano nella città di Gaza. Il leader si trovava in un ospedale di Doha, in Qatar, per far visita ad alcuni pazienti palestinesi feriti, e alla notizia il suo volto non tradì alcuna emozione. Disse soltanto: "Che dio abbia pietà di loro", e invitò gli astanti a continuare il giro nella struttura. Una reazione peculiare, ma normale per un uomo che, vista la sua posizione politica e il luogo in cui si trovava, non poteva lasciar trasparire alcun dolore in quel momento. Haniyeh è stato assassinato il 31 luglio scorso a Teheran insieme a una sua guardia del corpo, a seguito di un attacco aereo sferrato contro la sua residenza. Altre fonti parlano invece di una bomba piazzata nella sua camera. Si trovava nella capitale dell'Iran per partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente eletto Masoud Pezeshkian.
Fin dall'inizio della sua operazione militare nella Striscia di Gaza, iniziata dopo l'attacco sferrato da Hamas - l'organizzazione politica e militare che controlla Gaza, considerata terroristica da buona parte dei paesi occidentali- il 7 ottobre 2023, il governo di Israele ha dichiarato che non si fermerà fino a quando non avrà ottenuto una vittoria totale. Ciò implica l'uccisione dei componenti dell'ala politica e militare di Hamas, quest'ultima chiamata "Le Brigate Ezzedin al-Qassam". Gli attacchi missilistici nel territorio della Striscia per adempiere a tale missione hanno provocato la morte di quasi 40.000 civili palestinesi e 90.000 feriti, una cifra astronomica considerato che la popolazione totale dell'area è all'incirca di due milioni. La Corte dell'Aja - la Corte internazionale di giustizia dell'Onu - lo scorso maggio ha emesso un mandato di arresto contro il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, per crimini di guerra.
Ma la scia di sangue continua, inesorabile. I bombardamenti su Gaza non si placano, e i leader di Hamas - come il defunto Haniyeh - vengono raggiunti ovunque si trovino. Dall'inizio della guerra la paura era che il conflitto potesse allargarsi, previsione che ora sta diventando realtà. Il 27 luglio scorso un missile ha centrato un campo da calcio sulle Alture del Golan - territorio annesso da Israele nel 1981, senza però il consenso della comunità internazionale - uccidendo dodici bambini, tutti tra gli undici e i sedici anni, di etnia drusa, gruppo etnoreligioso arabo di derivazione islamica, considerati eretici dai musulmani ortodossi. Israele ha accusato Hezbollah, un'organizzazione paramilitare islamista e antisionista che ha sede in Libano. All'inizio questa ha rivendicato l'attacco, per poi smentire, ma la risposta di Israele non si è fatta attendere: il 30 luglio un attacco missilistico a Beirut, la capitale libanese, ha ucciso Fuad Shukr, il comandante militare di Hezbollah, accusato di essere il responsabile della carneficina sulle Alture del Golan. Oltre a Shukr, nell'attacco sono decedute altre tre persone, e settantaquattro sono rimaste ferite.
Il fronte con il Libano sembra oramai aperto, anche se diversi scontri erano già avvenuti nei mesi scorsi. Un'altra minaccia arriva da un paese NATO, ovvero la Turchia. Il presidente Recep Tayyip Erdogan si è detto pronto a invadere Israele. Erdogan ha condannato l'assassinio di Haniyeh - che definisce un martire - descrivendolo come un tentativo di colpire la resistenza a Gaza e minare la lotta dei palestinesi, da lui considerata sacrosanta. Anche l'Iran, che ha attaccato Israele tramite il lancio di missili e droni - il 99% intercettati dall'Iron Dome, l'efficientissimo sistema di difesa antimissile israeliano -, minaccia di guerra il paese ebraico, e lo stesso fanno gli Houthi, un gruppo islamico armato e politico yemenita che da novembre scorso ha alzato i toni colpendo nel Mar Rosso navi legate a Israele.
Siamo arrivati a un punto in cui la diplomazia non può fare tacere le armi. Le due parti da cui il conflitto ha avuto inizio, ossia Hamas e Israele, non sono riusciti a trovare un'intesa. Si sentono entrambe dalla parte del giusto, e non ammettono colpe; l'una vede il male radicale nell'altra, perciò le offensive - offensive difensive, dal momento che vengono idealizzate come tentativi di difesa, sia che si tratti di puro terrorismo, come usa fare Hamas, che come bombardamenti a tappeto, come avviene per Israele - sono particolarmente brutali. Hamas, almeno secondo il suo statuto, vuole la cancellazione di Israele, lo stato che considera una canaglia in quanto da quasi un secolo abita un territorio non suo, ma non disponendo di un esercito avanzato come quello nemico, non gli resta che compiere attentati terroristici; Israele invece rivendica quei territori e addirittura continua a sottrarli con la forza agli arabi, stanchi di continue usurpazioni, e per evitare episodi di terrorismo li fa vivere in uno stato di segregazione.
Un conflitto infinito e difficile, dove i momenti di pace sono apparenti e dunque mai assaporati davvero. Il mondo islamico è coeso, e ha sempre difeso la causa palestinese. C'è chi ha il coraggio di dire che la religione non sia alla base del conflitto, eppure questa è una verità che nessuno può negare: nei confronti del conflitto israelo-palestinese, i paesi arabi creano un fronte unito, e ciò che li lega è l'Islam. Dall'Egitto alla Siria, dalla Turchia all'Iran, il pensiero comune è che Israele abbia torto in tutto e per tutto, e i palestinesi, qualunque azione compiano, anche la più turpe, viene considerata giusta. Immaginiamo di essere circondati da paesi che non vedono l'ora di darci alle fiamme. Certo, Israele può contare sul sostegno dell'Occidente, ma questo si trova comunque in un'area geografica lontana, e non vive la quotidianità del conflitto, fatto di perenni paure, incarcerazioni arbitrarie, accese proteste, rivolte e omicidi.
Israele è un minuscolo avamposto con uno degli eserciti più avanzati al mondo, grazie anche alla tecnologia fornita dagli Stati Uniti. Possiede innumerevoli testate nucleari, e pur avendo un numero esiguo di abitanti - circa nove milioni e mezzo - può contare su una notevole quantità di soldati; ciò dipende dal fatto che tutti i cittadini, sia uomini che donne, sono obbligati a compiere il servizio di leva, e possono essere chiamati a combattere in qualunque momento. In caso però di un conflitto con più paesi, sarebbe difficile per il paese ebraico resistere, e un intervento della NATO non potrebbe essere che inevitabile.
E' sotto gli occhi di tutti che il governo di Netanyahu non ha avuto, e non avrà intenzione di fermarsi fino a quando non saranno raggiunti tutti i risultati precipui, ovvero l'eliminazione di tutti i miliziani di Hamas e i membri del suo governo. Qualunque tentativo di mediazione che preveda il rilascio degli ostaggi israeliani in mano ai terroristi, non farà desistere Netanyahu dal dare la caccia a chi il 7 ottobre si è macchiato dell'uccisione di oltre 1400 cittadini a sud di Israele, perciò l'accordo presentato da Joe Biden a giugno, che ha come finalità la cessazione permanente delle ostilità, non verrà rispettato da Israele, almeno fino al raggiungimento di questo obiettivo: che Hamas non rappresenti più una minaccia.
Netanyahu non si è lasciato intimidire dalla decisione dell'Aja di volerlo incarcerare per crimini di guerra; dalle manifestazioni e dalle proteste, sia dentro che fuori Israele, per un cessate il fuoco a Gaza; dalle richieste dell'ONU di deporre le armi; dalle minacce del mondo arabo. No, per Netanyahu si tratta di una questione di vitale importanza. Israele dovrà essere per sempre al sicuro, e tutti devono avere ben chiaro cosa gli aspetta se provano a colpirlo. Il presidente di estrema destra è disinteressato al presente, e guarda al futuro. Secondo la sua idea di lungimiranza, migliaia e migliaia di civili palestinesi massacrati sono necessari affinchè ogni cittadino israeliano potrà essere al sicuro negli anni a venire.
D'altronde è sempre successo; durante la Seconda guerra mondiale gli Alleati rasero al suolo la Germania nazista, e a farne le spese furono civili innocenti. Arrivati a questo punto, la vera domanda da porci è se sia legittimo sterminare un'intera popolazione per punire i cattivi, distruggendone le infrastrutture e affamandola, che fa da corollario a un'altra domanda, della stessa importanza: siamo sicuri che giustiziati i cattivi, in futuro non ne nascano altri? Se così fosse, la guerra non avrebbe mai fine. Questi interrogativi sono il perno attorno a cui gravitano la gran parte delle proteste - dagli Stati Uniti all'Europa, a Israele stesso - contro il governo israeliano. Occorre che vengano stabilite regole precise su cosa è legimittimo fare e cosa no durante un conflitto. Ad oggi, è tutto molto confuso.
Per molti, Netanyahu rappresenta l'Eracle greco, semidio eroe che, come racconta il mito, superando le Dodici fatiche volute dal cugino Euristeo, libera il mondo dai mostri più spaventosi - rappresentati nella realtà dai terroristi -. Il mito racconta anche che venne ucciso dalla moglie, Deianira, che dopo aver scoperto il suo tradimento, gli dona una tunica avvelenata che lo farà ardere vivo. Deianira rappresenta il popolo israeliano che, sentendosi ormai tradito, da mesi attende il ritorno dei civili prigionieri di Hamas, e chiede la fine del conflitto. La conclusione è immediata: Netanyahu non può ignorare le richieste dei cittadini che rappresenta, e perciò deve valutare bene ogni mossa che farà in futuro. Purtroppo il passato non si può cambiare; è macerie, in tutti i sensi.
Articolo a cura di Paolo Insolìa