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Israele risponde all'Iran: colpita una base militare. Possibili scenari di un mondo in fiamme e soluzioni

Il governo iraniano ha dichiarato che non ci sarà una reazione immediata, ma la situazione rimane incandescente

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Iran vs Israele Iran vs Israele © Deposityphoto
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Com'era previsto, la reazione di Israele alla rappresaglia di Teheran - un attacco con droni e missili neutralizzato dalla difesa israeliana che non ha riportato danni importanti e vittime, ma solo un ferito grave fortunatamente non in pericolo di vita: una bambina di sette anni colpita dalle schegge delle armi distrutte in volo - non si è fatta attendere. La notte del 19 aprile, ovvero qualche ora fa, Israele ha colpito una base militare nella città di Esfahan, nell'Iran centrale. L'attacco, avvenuto utilizzando dei piccoli droni, non ha danneggiato i siti nucleari dell'area. L'Iran ha dichiarato che non replicherà, almeno sul breve periodo, ma vista l'instabilità della zona, il pericolo di una escalation non è da scongiurare. 

Tutto è iniziato due settimane fa, quando Israele ha bombardato l'ambasciata iraniana a Damasco, in Siria. Gli obiettivi erano alcuni alti ufficiali dei Pasdaran, noti come Guardiani della Rivoluzione, ovvero le forze armate istituite in Iran in seguito alla rivoluzione iraniana del 1979, che trasformò il paese in una repubblica islamica sciita adottante una costituzione basata sulla legge coranica, e esponenti della Jihad islamica palestinese, insieme per discutere di strategie militari da mettere in atto nella Striscia di Gaza, da mesi bombardata da Israele dopo l'attentato che subì il 7 ottobre da Hamas, l'organizzazione terroristica che dal 2007 governa l'enclave palestinese. Dopo qualche giorno l'Iran ha risposto al bombardamento, e Israele ha replicato la notte scorsa, in un botta e risposta pericolosissimo che può portare a una guerra regionale di vasta portata. 

Israele può godere dell'appoggio di alcuni paesi nell'area: l'Arabia Saudita - nemico numero uno dell'Iran -, gli Emirati Arabi Uniti e la Giordania. Riferendoci all'attacco iraniano verso Io stato ebraico, l'aviazione giordana avrebbe distrutto circa il 20% dei missili lanciati da Teheran, ed è nei cieli della Giordania che gli aerei britannici, statunitensi e israeliani li hanno intercettati. L'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno invece fornito preziosi dati agli USA circa le modalità dell'attacco. 

Israele è l'unico paese del medioriente a possedere armi nucleari, mentre l'Iran, secondo diverse fonti ufficiali, sarebbe a un passo dalla messa a punto della sua prima bomba atomica. Le armi nucleari fungono da deterrente, e se è inverosimile che Israele possa usarle contro i paesi vicini - rischiando di essere sanzionato, o peggio, di danneggiare i propri cittadini - se messo alle strette potrebbe decidere di utilizzarle. In tal caso, ne verrebbe sdoganato l'uso, con tutte le catastrofi che comporterebbe.

Se estendiamo lo sguardo oltre il medioriente, vediamo che la rete di alleanze si infittisce; l'Iran è infatti sostenuto dalla Russia, da cui riceve armi sofisticate come droni superveloci e sistemi avanzati di difesa aerea, e al contempo il regime guidato da Ebrahim Raisi rifornisce quello di Vladimir Putin di missili balistici. Israele invece, come ben sappiamo, è uno stretto alleato degli Stati Uniti e del blocco occidentale. Vien da sè che un conflitto aperto tra le due potenze mediorientali vedrebbero implicati Stati Uniti e Russia su un altro fronte, ampliando le possibilità di una guerra mondiale.

A chi conviene far scoppiare una guerra regionale in medioriente? A Israele, circondato da paesi ostili che vedono crescere generazioni a lui antagoniste? A tal proposito, quando cesserà la guerra nella Striscia di Gaza, il conflitto andrà ridimensionato anche sotto l'aspetto dei giovani palestinesi, cresciuti con l'idea di Israele stato-criminale ai quali ha strappato via i loro familiari e raso al suolo le loro abitazioni e le loro scuole. Se Netanyahu desidera una pace perpetua, Israele dovrà quindi pensare a quali strategie adottare per legittimarsi agli occhi dei palestinesi.

Il conflitto conviene ai paesi nemici dello stato ebraico, alleato del blocco occidentale e con un sofisticatissimo apparato militare, capace di colpire con precisione chirurgica gli obiettivi che desidera - come sta facendo a Gaza nei confronti dei combattenti di Hamas e a Damasco contro l'ambasciata iraniana - e di contrastare razzi e droni in volo senza causare danni alla popolazione? La conclusione a cui si arriva è che un conflitto di tale portata non conviene a nessuno. 

Le sfide che il mondo deve affrontare sono ben più importanti del contendersi un fazzoletto di territorio, come sta avvenendo nell'ultimo periodo in varie parti del mondo, perfino nella nostra Europa. Certo, a volte le guerre sono necessarie, ma la dicotomia bene e male - che si traduce nel cercare le ragioni e i torti delle parti in guerra - è, ad oggi, una questione marginale rispetto ai reali problemi che investono tutti i paesi del globo, nessuno escluso. Per reali si intende concreti e trascendenti le ragioni, spesso faziose, che portano alle dichiarazioni di guerra e alle sue tragiche conseguenze. Per reali si intende anche inderogabili e senza futuro, in quanto se non affrontati in tempo - e siamo già in ritardo - porteranno prima le società, e poi il pianeta, al loro collasso. 

L'aumento delle disuguaglianze sociali è uno di questi; la povertà è sempre più diffusa, e anche la classe un tempo considerata borghese diventa di anno in anno sempre più povera. Chi si arricchisce sono le grandi multinazionali, capitanate da pochi individui che fruttano sulle spalle di dipendenti mal pagati e trattati come oggetti - in Francia il colosso Amazon è stato multato per controllare in maniera eccessiva i lavoratori e negli Stati Uniti è stato accusato di non fare abbastanza per la loro sicurezza -. Secondo i dati dell'Eurostat - l'Ufficio statistico dell'Unione Europea - del 2022, nell'Unione Europea 95,3 milioni di individui, il 22% della popolazione, erano a rischio povertà o di esclusione sociale. Non è un problema soltanto europeo; basti pensare all'Africa, dove migliaia e migliaia di persone sono costrette ogni anno a lasciare il continente in cerca di una vita migliore, o ai paesi dell'America Latina, in maggioranza abitati da individui poveri che tentano di fuggire al nord, verso gli Stati Uniti e il Canada.  

E poi l'inquinamento ambientale, tema caro ai giovanissimi, che pur essendo nati in un periodo storico dalle infinite comodità, scendono in piazza per dire basta all'uso indiscriminato dei combustibili fossili - prova che la sensibilità, impronta del carattere di ognuno di noi, non può essere soffocata da nulla, nemmeno dal comfort dato dalle tecnologie odierne -. Gli scienziati sono concordi nel sostenere che più tempo passa, più sarà difficile salvare il pianeta dal surriscaldamento prodotto dalla combustione di carbone e petrolio. 

Per ovviare in futuro a tale problematica, ovvero farsi guerre inutili dimenticando ciò che conta davvero, è necessario - anche se non sufficiente - partire dall'educazione delle nuove generazioni. Quanta confusione alberga nella mente e nel cuore delle nuove generazioni! La società insegna che la violenza non è mai la soluzione, eppure chi ci governa la legittima, affermando, ad esempio, che Israele ha il diritto di trucidare i terroristi che hanno compiuto gli attentati del 7 ottobre all'interno del suo territorio. La società insegna anche che bisogna fare gruppo, eppure il mondo è diviso in blocchi che spesso non riescono a cooperare tra loro e che sono in eterna competizione - Stati Uniti e Cina sono un esempio emblematico -. Ci dicono di evitare gli sprechi, ma poi le risorse vengono stanziate per scopi militari...

Come società, la strada da percorrere è quella odierna, ma insistendo maggiormente sui valori sopraccitati, ovvero cooperazione, pace e attenzione all'ambiente. A volte in politica vengono prese decisioni che nella convivenza comune tra cittadini verrebbero condannate senza alcuna eccezione, come appunto l'uso della forza. Purtroppo però il male, quando si esplica in tutta la sua brutalità, non può essere sconfitto con le parole. L'unica possibilità che abbiamo per un futuro migliore è educare i nostri figli e nipoti al bene fin dalla nascita, in modo tale che le liti, qualora insorgano, vengano risolte tramite la diplomazia. L'obiettivo finale dev'essere quello di assistere alla smilitarizzazione dei paesi, e alla loro convivenza pacifica: solo così educare al bene sarà in cima alla lista delle priorità di ogni società. 

Paolo Insolia
 

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