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Sammezzano, il capolavoro in disuso con i suoi paradossi: sarà salvato?

Un'opera architettonica sbalorditiva, che sembra uscita da un racconto orientale, ma che continua a restare in uno stato di abbandono e trascuratezza

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Sammezzano Sammezzano © Tucci
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Sammezzano è uno di quei paradossi che fai fatica a spiegarti. Un’opera così sbalorditiva da far gridare al miracolo ma che continua a stazionare nel limbo dei luoghi culturali più in pericolo del continente. Un complesso che è un fantasmagorico inno all’oriente, realizzato da un uomo che in oriente non ci aveva mai messo piede . Un castello che, con il suo parco a tema, rappresenta un’unicità nazionale e in larga misura persino Europea; una pantagruelica abbuffata esotica con la quale saziare lo stomaco e nutrire la mente.

Le foto di Sammezzano continuano a circolare in lungo ed in largo per il globo terracqueo; una popolarità in costante crescita che cozza contro una realtà fatta di noncuranza ed abbandono. Sempre più persone si chiedono come sia possibile visitare il castello delle “Mille ed una notte” e la risposta ormai da troppi anni è sempre la stessa: niente da fare, chiuso al pubblico. Questo è il grande paradosso sul quale Sammezzano invita a riflettere: un potenziale culturale incommensurabile a fronte di un latitante interesse delle istituzioni competenti.

Poche opere hanno un legame così stretto ed inscindibile con il proprio creatore: Sammezzano è l’abito elegante, colorato ed eccentrico che il marchese Ferdinando Panciatichi si è modellato addosso su misura, è il rifugio fiabesco che un’unica persona è riuscito a partorire con la sola spinta dell’immaginazione. Ferdinando Panciatichi Ximenex d’Aragona è stato una personalità fuori dal comune, un intellettuale a tutto tondo ed un anticonformista per vocazione. Esuberante, istrionico e convinto anticlericale, le sue passioni svariavano tra i campi più disparati: dall’architettura alla botanica, dall’ingegneria alla fotografia; padroneggiava cinque lingue e, come prevedibile, era un grande appassionato d’arte. Si incuneò anche nell’articolato contesto politico dell’epoca, sostenendo economicamente le guerre per l’indipendenza d’Italia e partecipando ai moti del 1848.

Fu inoltre membro del parlamento italiano. Ma una personalità così inquieta non poteva che finire con lo scontrarsi con le istituzioni che in qualche maniera rappresentava: per una legge che rifocillava le economie della Chiesa, si dimise indignato dalla sua carica e finì per convogliare tutta la delusione e la rabbia nel concepimento del suo sogno esotico. Curvo sui libri e noncurante delle critiche che gli piovevano addosso, attingendo al suo ragguardevole bagaglio culturale, iniziò a progettare e disegnare di mano propria quelle che sarebbero diventate le geometrie ed i ricami che avrebbero reso unica la sua personale trincea da un mondo troppo ostile ed ordinario.

Inorridito dall’asfittica quotidianità che lo aveva logorato, trasse linfa dalla sua fervida creatività per creare un’opera che era la trasposizione dell’immaginario collettivo lasciato in eredità dalle “Mille ed una notte”. Ferdinando certamente non navigava in cattive acque dal punto di vista economico: alla morte del padre ereditò, tra le altre cose, un fortilizio di origine seicentesca, assieme allo stemma ed al nome che appartenevano alla famiglia degli Aragona. Il maniero fu letteralmente stravolto nelle forme ed in quaranta anni, a partire dal 1850, trasformato nel castello che oggi possiamo ammirare. Ahimè solo a distanza. 

Panciatichi si occupò personalmente della formazione degli operai che lavorarono per il suo vertiginoso sogno esotico. Attenzione però a chiamarlo orientalismo perché significherebbe sminuirlo: il castello, pur presentando diversi riferimenti all’oriente, è il più rilevante esempio di architettura eclettica in Europa, Andalusia esclusa. Un’opera che blandisce e prende a schiaffi allo stesso tempo, inebria e stordisce. E quella era, in fondo, l’intenzione del marchese: tutto sembra architettato con l’obiettivo di stupire, una scossa tellurica studiata appositamente per sobbalzare. 

La traversata delle circa 40 sale del piano monumentale è un grandioso viaggio transcontinentale ed ogni ambiente è ispirato ad un preciso contesto. Il visitatore viene accolto da un tripudio di colori e colonne e le intenzioni sono subito messe in chiaro dalla prima scritta: “Non plus ultra”. Oltre a qui non si può andare. Si passa dagli omaggi all’Alhambra con il più grande salone in stile moresco in Italia, alle aree d’ispirazione persiana e maghrebina. I colori cambiano radicalmente, si susseguono decorazioni, archi, cupole, pennacchi e senza neppure accorgercene finiamo catapultati nell’India Moghul tra stucchi e maioliche. I pirotecnici giochi di luce creati da specchi e finestre policrome amplificano le percezioni sensoriali. Viene inevitabilmente da chiedersi come deve essere stato il castello ai tempi del suo creatore, con tutti gli arredi ed orpelli ad oggi mancanti. Persino la BBC si è accorta della Sala dei pavoni, che fungeva da sala da pranzo, inserendo il suo lussureggiante soffitto tra i dieci più belli al mondo. 

Il viaggio continua tra le numerose scritte e targhe – in italiano, latino e spagnolo – dove il marchese incornicia tutto il suo risentimento. Tra le velenose invettive sembra dischiudersi l’illusione di un sorta di ritorno all’ordine. Neppure per idea: il marchese ci disorienta ancora disseminando giochi di rimandi lessicali che celano enigmi che ancora non sono stati rivelati. E poi la Sala delle stalattiti, l’avanguardistica Sala dei fumatori con il suo sorprendente sistema di areazione e persino una cappella che incrocia i simboli delle religioni monoteiste, adibita però a tempio spirituale. Tutto ed il contrario di tutto in un’unica opera, ma al contempo un lavoro clamorosamente coerente nella sua eterogeneità.

Alla dipartita di Ferdinando, nel 1897, tutti i suoi averi passarono alla figlia Marianna che raccolse degnamente l’onerosa eredità del padre. La donna, oltre a distinguersi come una brillante intellettuale ed un’ eminente naturalista, si impegnò nel redigere un’ambiziosa raccolta di tutte le specie arboree presenti nel parco esotico voluto dal padre, che si estende su circa 200 ettari di terreno. La maggior parte delle specie furono importate da oltreoceano: impossibile non citare l’imponente sequoia gemella che, con i suoi 54 metri di altezza è la sequoia più alta d’Italia ed è inserita tra i 150 alberi di eccezionale valore ambientale e monumentale.

Fu dalla morte di Marianna che iniziò l’inesorabile declino del castello, costellato da continui passaggi di proprietà che finirono per stuprarne gli intenti originari. Fu depredato dai nazisti, usato come deposito militare durante la seconda guerra mondiale e dagli anni ‘70 trasformato, per circa 20 anni, in ristorante ed albergo, luogo per scenografici pranzi di nozze e set per diversi film di ambientazione esotica. Successivamente a questo periodo, per Sammezzano furono studiati progetti di recupero e manutenzione che non vennero mai portati a termine e che condussero, dai primi anni 2000, alla chiusura pressoché definitiva al pubblico. Ed a seguire proprietà che si avvicendano tra bancarotte ed aste giudiziarie mai aggiudicate.

Il più grande lavoro eclettico in Italia sottratto alla vista degli appassionati ed esposto alle scorribande del vandalismo. Il parco rimane visitabile ma è stato in larga parte trafugato dei suoi ornamenti: delle statue, delle grotte articificiali, delle vasche e delle fontane di cui era dotato rimane ben poco. Il castello fa capolino dalla cima di un poggio della valle dell’Arno, Firenze dista meno di 30 km. A circa un chilometro di distanza, proprio ai confini del parco, si sviluppa l’area di The Mall, un vasto centro commerciale di lusso che sembra prendersi beffe della meraviglia soprastante: qui si calcola che ogni anno si affaccino oltre tre milioni di visitatori. Proprio così, tre milioni di persone che scorrazzano ai piedi del capolavoro in disuso, che altro non fanno che alimentare il vento sferzante dell’indignazione. Il solo pensiero delle frotte di visitatori che passeggiano ignari ai piedi del castello suona quasi come una crudele provocazione.

Il castello è stato tuttavia oggetto di un rinnovato interesse: i primi ad alimentarlo sono stati, dal 2012, i membri del Comitato FPXA, nato senza scopo di lucro e con il preciso intento di far conoscere la vita del marchese Panciatichi e la genesi della sua opera. Il comitato, in collaborazione con la non esattamente volitiva proprietà, si è adoperato negli anni per aprire le porte del castello per estemporanee visite guidate durante le giornate del FAI, il fondo per l’ambiente italiano. Le richieste per visitare la struttura sono state migliaia ed il passaparola ha assunto una portata considerevole anche grazie alle immagini brulicanti in rete.

Ma non finisce qui: dal 2015 ha preso forma l’ambizioso progetto “Save Sammezzano”, con sugli scudi un nutrito gruppo di appassionati del castello appartenenti ai più svariati ambiti culturali: architettura, storia dell’arte, economia, ingegneria.Tutti uniti per un unico obbiettivo: “sensibilizzare l’opinione pubblica affinché il castello non diventi un bene solo per pochi”.

Tra le altre cose, nel sito del movimento si leggono accorati appelli rivolti persino alle istituzioni: “...concordiamo pienamente nel chiedere allo Stato di intervenire anche in modo più incisivo, ovvero con l’immediata confisca coatta del bene, pur di salvarlo quanto prima dalla vergognosa situazione in cui versa ormai da decenni”.

Già, perché al contrario delle immagini del piano monumentale che sembrano consegnarci un castello in discreto stato di salute, in rete circola ben poco sulle aree più degradate della struttura che rischiano di logorare col tempo l’intero complesso. L’ inerzia delle iniziative attorno al castello ha portato all’exploit del 2016: Sammezzano eletto luogo del cuore del FAI con oltre 50mila voti. La popolarità schizza ai massimi storici ed è in arrivo un cospicuo assegno per rilanciare il castello. Sembra la svolta tanto attesa ma niente, nemmeno per sogno: il Fai blocca il premio in attesa di sviluppi chiari sui progetti e le intenzioni dell’assente società proprietaria.

Recentemente è arrivata una proposta concreta per l’acquisizione di Sammezzano da una nota famiglia fiorentina: Ginevra Moretti, figlia dell’imprenditore Giorgio, ha creato una società ad hoc, la “Smz srl”. L’intento pare essere quello di rilevare il castello, metterlo in sicurezza e provvedere a dargli nuovo lustro, anche attraverso la riabilitazione della fruizione pubblica. Sul piatto un bel gruzzolo di milioni ma tutto passerà dal curatore fallimentare. Dai movimenti pro Sammezzano trapela un cauto ottimismo, considerate le passate vicissitudini che sono sempre sfociate in un niente di fatto. Non resta che attendere allora.

Ma perdere Sammezzano sarebbe una sconfitta gigantesca. Non sono bastate le mozioni parlamentari, l’inserimento nelle liste rosse, le aste giudiziarie e gli appelli allo stato. Ancora non siamo riusciti a raccogliere il testimone da un uomo che, con il solo potere dell’immaginazione, aveva saputo guardare lontanissimo. La nostra, di immaginazione, non ha saputo librarsi in un volo all’altezza. Ma forse Sammezzano è materia di un altro pianeta. Sicuramente più scintillante ed armonioso di questo.

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