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Emigranti di ieri e migranti di oggi. Quali differenze? 'Il capire 'un t'ammazza'

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Parliamone, di domenica -Siamo stati, fino ai primi anni sessanta del ventesimo secolo – appena ieri – una nazione di emigranti nel mondo. […]. Fu difficile trovare uno spazio, in tessuti sociali diversi dal nostro, fra non poche ostilità e anche prove di solidarietà: ma fu possibile per tanti, tantissimi. Gli italiani emigrati e i loro discendenti hanno saputo inserirsi, a pieno titolo, con valore e vigore, nelle realtà estere in cui si erano recati. Le arricchirono con la loro opera, intellettuale e manuale. Tutti ce lo riconoscono e in alcuni paesi – pensiamo proprio al Belgio di Marcinelle – sono ascesi anche ai massimi livelli delle responsabilità di governo. Riflettiamo con consapevolezza e giusto orgoglio su queste esperienze di molti fra i nostri padri e nonni. Riconosciamo, con convinto rispetto, il loro inestimabile contributo alla storia d’Italia e dei luoghi dove si recarono. Non scordiamoci mai dei loro sacrifici. Pensiamoci, quando vediamo arrivare in Europa i migranti della nostra travagliata epoca”. E’ un estratto del messaggio che il Ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ha inviato agli italiani all’estero in ricordo della tragedia di Marcinelle, avvenuta 62 anni fa. L’8 agosto 1956, per un errore nella movimentazione degli ascensori, vennero tranciati cavi elettrici, telefonici e una condotta con l’olio. Nella miniera del Bois du Cazier si sviluppò un enorme incendio che si diffuse nella condotta d’aria principale: le fiamme impedirono ai minatori di raggiungere le vie di fuga, mentre il fumo raggiunse tutte le gallerie della miniera. Invano i minatori cercarono di trovare un luogo dove poter sopravvivere: morirono in 262. 136 erano italiani, per lo più provenienti dalla Calabria. Il messaggio del Ministro Moavero che commemora e ricorda quella tragedia contiene molti spunti di riflessione. Partiamo dalla interpretazione che molti hanno dato a queste parole. I giornali, di questo discorso (che anche noi abbiamo non abbiamo citato per intero, ma che potete trovare integralmente in questo link) hanno messo in evidenza due concetti: “Siamo stati una nazione di emigranti” e “Pensiamoci quando vediamo arrivare in Europa i migranti della nostra travagliata epoca”. Non ci vuole molto per risolvere questa equazione: se siamo stati migranti un tempo, se abbiamo sofferto di tragedie enormi, oggi serve ricordarcelo e evitare che altri subiscano lo stesso trattamento. Naturalmente, non hanno rinunciato a far sentire la loro voce quelli che non considerano affatto scontato il risultato, denunciando come “irrispettose” nei confronti dei nostri padri e dei nostri nonni le parole del Ministro. Succede così quando di un discorso si prendono solo alcune parti. In realtà gli spunti del Ministro sono moltissimi e conviene approfondirli per capire se la nostra emigrazione è davvero un fenomeno paragonabile a quello che oggi stiamo vivendo. Intanto, è indubbio che siamo stati un popolo di emigranti: non solo verso il Belgio e non solo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il fenomeno si verifica – con numeri da subito impressionanti – già dopo i primi anni dell’Unità d’Italia. Tra il 1876 e il 1915 lasceranno il paese oltre 14 milioni di italiani. All’inizio sono soprattutto le regioni settentrionali a pagare il prezzo, ma poi il flusso colpirà prevalentemente l’Italia meridionale e in particolare la Sicilia, che nel primo quindicennio del secolo vedrà uscire oltre un milione di abitanti. Sono numeri impressionanti, che se estesi ad una serie storica secolare (tra 1876 e 1976) porta un saldo negativo di otre 24 milioni di persone. Quasi la metà della popolazione attuale. E il dato non tiene conto delle migrazioni interne che hanno caratterizzato il periodo del “miracolo economico” e che tra gli anni Cinquanta e Sessanta videro milioni di persone spostarsi all’interno del territorio italiano in cerca di lavoro. Come noto, furono soprattutto i grandi centri del nord a ricevere i nuovi arrivati dal Meridione; ma il flusso migratorio interno accompagnò anche la realizzazione delle grandi opere. Lo sanno bene gli abitanti del Mugello, che accolsero i lavoratori che costruivano l’Autostrada del Sole: soprattutto friulani e lucani, molti dei quali decisero poi di rimanere con le loro famiglie. Dunque si, siamo stati una nazione di migranti. Anche se a dire il vero lo siamo ancora oggi, visto che l’OSCE segnala come l’Italia sia all’ottavo posto nel mondo per emigrazione. Nel 2018 sono già oltre 250 mila i nostri connazionali che si sono diretti in un altro paese, cifra che si avvicina a quelle record degli anni Cinquanta. Se su questo aspetto il Ministro Moavero ha senza dubbio ragione, il paragone con il flusso migratorio che proviene dall’Africa non tiene. La nostra emigrazione verso l’estero è infatti stata tutto meno che incontrollata o libera. Il flusso che portò i nostro connazionali nelle miniere del Belgio, ad esempio, era frutto di un accordo tra i due governi: l’Italia avrebbe dovuto garantire al Belgio duemila uomini ogni settimana; in cambio, avrebbe ricevuto 200 chili di carbone al giorno per ogni minatore. Era un accordo frutto della tragedia della guerra: in Belgio mancavano braccia per far ripartire l’economia, in Italia mancavano lavoro e materie prime. Partirono in 140 mila in meno di dieci anni, seguiti da 50 mila tra donne e bambini. Furono accolti con diffidenza, pregiudizio. Furono oggetto di razzismo e di intolleranza: il cartello “vietato ai cani e agli italiani” era piuttosto comune in Belgio e in Svizzera. Non era andata meglio ai nostri connazionali che avevano viaggiato verso l’America: dove venivano trattenuti in quarantena, visitati e rimandati indietro se non avevano tutti i requisiti richiesti. A questo si riferiscono le parole di Moavero: all’immenso sacrificio di queste generazioni. Ma essendo una immigrazione regolamentata (magari con formule aberranti che abbiamo visto: uomini per carbone…), i nostri connazionali si sono in qualche modo integrati. Perché gli Stati Uniti e l’Argentina erano territori sterminati e deserti, dove possibilità di lavorare non mancavano; perché Francia, Belgio e Germania avevano una elevata industrializzazione che richiedeva forza lavoro, soprattutto dopo la carneficina delle due guerre mondiali. Soffrendo – tanto, tantissimo – i nostri connazionali “[…] hanno saputo inserirsi, a pieno titolo, con valore e vigore, nelle realtà estere in cui si erano recati”. Ecco, a me pare che quello che sta succedendo adesso abbia ben poca possibilità di essere paragonato ai nostri padri e ai nostri nonni. Non solo perché per emigrare c’erano regole ben precise da rispettare per raggiungere un paese e poter lavorare, ma anche per una prospettiva più complessa e meno immediata. Le condizioni di vita durissime – addirittura tragiche – non erano solo dei nostri connazionali, ma erano condivise anche dalle popolazioni locali. La prova è proprio Marcinelle: perché in quella maledetta miniera morirono 8 polacchi, 6 greci, 5 tedeschi, 3 ungeresi, 3 algerini, 2 francesi, 2 russi, 1 inglese, 1 olandese.; ma persero la vita anche 95 belgi. Si trattava di persone che vivevano e lavoravano in condizioni terribili, divisi dalla nazionalità, ma uniti dalle condizioni di vita e di lavoro. La morte è più sbrigativa ad annullare le differenze; la vita ci mette senza dubbio di più. E infatti quella distinzione è caduta ovunque: generazioni dopo, ma è caduta. Esempio migliore di New York non potrebbe esserci: ben quattro sindaci sono di origine italiana: Fiorello La Guardia, figlio di immigrati pugliesi, guidò la città dal 1934 al 1945 e fu talmente apprezzato dai cittadini dai suoi concittadini da meritarsi l’intitolazione di uno dei grandi aereoporti della Grande mela; Vincent Impellitteri, sindaco dal 1950 al 1953, egli stesso immigrato con la famiglia dalla Sicilia; Rudolph Giuliani, sindaco dal 1994 al 2001, che guidò con decisione e umanità la città dopo la tragedia dell’11 settembre e infine Bill De Blasio, che vanta un nonno di Sant’Agata dei Goti. Storie di successo, partendo da un passato di immigrazione e povertà, per completarsi in un percorso di integrazione a scuola, nel lavoro nella politica. Superando pregiudizi e intolleranza. Sono possibili storie come queste con gli immigrati che giungono nel nostro paese in questi anni? Lo saranno certamente: perché l’integrazione è solo questione di tempo. Lo saranno attraverso la scuola, lo sport, il lavoro, l’impegno politico. Magari ci vorrà tempo e la capacità degli immigrati di “inserirsi nella nostra realtà” (aspetto non del tutto scontato, alla fine). Ma chi è presente illegalmente sul territorio di uno stato ha molte meno possibilità. Anzi, non ne ha nessuna. Non ha diritti, è invisibile e le sue possibilità di integrazione sono ridotte al minimo. Non è solo la povertà (quella tocca anche tanti italiani) è la marginalità che pesa come un macigno. Ed è questo il punto dolente dell’immigrazione in questo momento: perché se la metà delle domande di asilo vengono rigettate, cosa viene garantito a quelle persone se non la marginalità più estrema? Di nuovo, la Francia ci fornisce un modello. E non è solo quello della Nazionale campione del mondo, additata come faro di multiculturalità perché al suo interno giocano campioni provenienti da tutte le ex colonie francesi: quando si è ricchi, famosi è fin troppo facile. Il modello è anche quello dell’integrazioni con le diverse generazioni dei cittadini francesi delle colonie: in alcuni casi hanno certamente raggiunto posti di prestigio e di responsabilità, ma per lo più abitano le banlieu, le periferie cittadine sempre pronte a esplodere. E non è un caso che gli autori dei terribili attentati che hanno sconvolto la Francia negli ultimi anni avessero in comune (oltre all’adesione all’islam integralista) anche quello di essere abitanti delle periferie. Quindi sì, siamo stati emigranti – e in parte lo siamo ancora. Ma la nostra emigrazione ha caratteristiche del tutto diverse. Accomunare i due fenomeni dovrebbe portare la riflessione sulla necessità di rendere più veloce e efficace l’integrazione nella nostra realtà delle persone che hanno scelto di vivere in Italia e lo fanno con le carte in regola. Ma non spiega niente di come risolvere il problema dell’immigrazione irregolare, della clandestinità alla quale molti sono condannati e alla gestione di un flusso migratorio di proporzioni bibliche.

 

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