Paolo Maurizio Insolia, il nostro giovane editorialista, espone una propria analisi sui tragici fatti successi in Israele, ponendo alcune domande utili per cercare di dare una vera svolta al problema medio orientale.
Dopo i tragici eventi avvenuti in Palestina, con attacchi mirati su Israele da parte di Hamas, la comunità israeliana fiorentina ha espresso il timore di subire attentati terroristici, anche se, a detta del presidente della comunità ebraica di Firenze e di Siena, Enrico Fink, non ci sono al momento segnali di pericolo. La prefettura e le forze di polizia hanno dichiarato che vigileranno sugli obiettivi sensibili: la sinagoga, la sede del consolato onorario di Israele, e una scuola frequentata da studenti di origine ebraica. Il timore è motivato, e nasce dal fatto che negli anni passati abbiamo assistito a attentati terroristici di matrice islamica nel cuore dell’Europa in concomitanza delle conquiste territoriali dell’Isis. Ma cosa è accaduto esattamente in Terra santa? Prima di arrivare alla situazione odierna, un po’ di storia.
La Palestina non trova pace. Dalla fine della seconda guerra mondiale, quando venne divisa in due stati autonomi - uno in mano agli ebrei, l’altro agli arabo-palestinesi - si sono succeduti violenti conflitti. Molto brevemente: i palestinesi non riconoscono lo stato di Israele e rivendicano la loro terra, mentre gli ebrei non hanno alcuna intenzione di andarsene dal territorio che la Bibbia definisce terra d’Israele, e che rivendicano a loro volta. Tra i due popoli la convivenza è sempre stata difficile, e i due paesi sono divisi da muri alti nove metri, sorvegliati ventiquattr’ore su ventiquattro da cecchini all’interno di torrette e da videocamere. Checkpoint sparsi ovunque identificano chi entra e chi esce dal suolo controllato dallo stato di Israele, in quanto anche le città e i villaggi sono attraversati da muri divisori. Un clima da guerra fredda insomma, dove a ogni via ci si imbatte in soldati armati pronti a fare fuoco in caso di incursioni.
Numerose guerre si sono intervallate in questi settantacinque anni, e hanno visto partecipi, direttamente o indirettamente, altri stati, tra cui i paesi arabi - specialmente quelli confinanti - contrari allo stato di Israele, e gli Stati Uniti e i paesi occidentali, che lo hanno sempre sostenuto. Durante le guerre del 1967 e del 1973, l’Unione Sovietica sostenne la causa palestinese, fornendo supporto militare e logistico ai paesi arabi, segno che il conflitto, anche se combattuto in un minuscolo fazzoletto di terra, è stato, ed è tuttora fondamentale, per gli equilibri mondiali.
Le vittorie militari e l’instaurazione di colonie in territorio palestinese - queste ultime contrarie al diritto internazionale - hanno fatto sì che nel corso dei decenni Israele ampliasse la propria zona di influenza, condannando i palestinesi a vivere in un territorio sempre più ristretto e soffocante. Emblematico è il caso della Striscia di Gaza, un minuscolo enclave che affaccia sul mare abitato da quasi due milioni e mezzo di abitanti, per metà minori. Ed è proprio da lì, da Gaza, che il 7 ottobre scorso è partito l’attacco da parte di Hamas, un’organizzazione politica e paramilitare che governa la Striscia e che combatte per la soppressione di Israele e l’istituzione di uno Stato Islamico Palestinese. L’attacco, che ha colto Israele alla sprovvista e ha bucato le sue difese aeree e terrestri, è avvenuto in due modalità: uno missilistico e uno via terra. Si contano centinaia di morti e migliaia di feriti israeliani, più un numero imprecisato di rapimenti, che renderà cauta la risposta di Israele nell’enclave, dove vengono tenuti gli ostaggi.
Quella della Palestina è una situazione estremamente complessa, in cui tutti hanno ragione e torto allo stesso tempo, e in cui è impossibile avere un parere unanime. La stampa occidentale ha condannato a gran voce l’azione terroristica di Hamas, che si è macchiata oltretutto di un fatto grave e inaccettabile: durante un festival di musica elettronica vicino alla Striscia di Gaza, i miliziani - atterrati con deltaplani - hanno massacrato a colpi di mitragliatrice 260 tra ragazze e ragazzi. Altri sono stati presi in ostaggio.
Il male è vuoto, si ciba di gelo, non fa caso ai sentimenti, e il suo volto si rispecchia in carneficine di questo genere. I caduti al festival erano civili indifesi che ballavano e non soldati armati fino ai denti. Oltretutto ci sono deceduti anche di altre nazioni: turisti innocenti capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Il problema dell’occidente è che spesso si mantiene distante dalle cause che generano le azioni, soprattutto se malvagie. Hamas probabilmente sarebbe nata comunque, ma il sostegno che nutre dalla popolazione aumenta di anno in anno. Eppure è un’organizzazione fondamentalista, che predica la violenza come unica risoluzione del conflitto arabo/israeliano. O diciamo che i palestinesi di Gaza diventano col tempo più estremisti per via di qualche strana mutazione genetica che elimina progressivamente la ragione dal loro cervello - ma per fortuna non siamo dentro un romanzo di Stephen King - o bisogna ammettere che le politiche di espansione territoriale, di chiusura e di controllo portate avanti da Netanyahu - primo ministro israeliano - accecano di odio i palestinesi. Politiche che vengono denunciate dalla stampa indipendente e da organizzazioni non governative. Per capire quanto Netanyahu sia intransigente nei confronti dei palestinesi, basti pensare che a Itamar Ben-Gvir - un politico di estrema destra che ha subìto processi per incitamento all’odio razziale e che da avvocato ha difeso vari coloni israeliani accusati di violenze nei confronti dei palestinesi - è stato conferito il comando di supervisionare la polizia israeliana. La ong israeliana per i diritti umani B’Tselem denunciò la polizia di frontiera per l’uso indiscriminato della violenza nei confronti dei civili palestinesi.
L’attacco di Hamas è arrivato durante un momento critico per la politica di Israele, dove la popolazione si è schierata in massa contro la riforma della giustizia proposta da Netanyahu, che indebolirebbe il sistema giudiziario, e di conseguenza la democrazia. “La risposta agli attacchi su Israele”, ha dichiarato il presidente di estrema destra, “sarà durissima”. E infatti gli attacchi sulla Striscia di Gaza sono già cominciati, causando morti tra i civili. Ma è davvero l’unica soluzione perseguibile? Qualche anno fa lessi un articolo della filosofa Donatella Di Cesare, dove spiegava che la Palestina può avere la grande occasione di essere il primo reale esempio per il mondo che verrà, in cui due, o più popoli diversi, si troveranno a convivere nello stesso territorio per via di vari fattori, tra cui le migrazioni causate dal cambiamento climatico. Basterebbe buttare giù il muro che divide i due stati. Certamente non succederà in un attimo, ci vorrà del tempo, ma invece di schierarsi per l’una o l’altra causa, che come abbiamo visto non porta da nessuna parte, perché non sperare in uno stato che governa due popoli, e smetterla quindi di continuare a tifare per la prevaricazione dell'uno sull'altro?
Sono stufo di tutti quegli intellettuali e giornalisti che giudicano i paesi in base al loro essere o non essere democratici. Non sono antidemocratico, tutt’altro, ma non è l’unica condizione giudicante. Netanyahu è presidente di un paese democratico, eppure è tutto fuorché santo. Associare la santità alla democrazia è un errore che ci fa perdere di vista l’essenziale, ovvero il dialogo. Protetto dall’occidente per via anche della democrazia che vige in Israele, Netanyahu ha usato il pugno di ferro verso i palestinesi. E allora mi chiedo: perché nessuno ha detto nulla? Perché l’occidente si sveglia dopo che l’oppresso usa a sua volta la violenza? Perché difendere a spada tratta Israele quando sappiamo che continua a espandersi ai danni dei palestinesi? Prendiamo le difese di Israele solo perché è democratico? Ragionare come alcuni comunisti, che difendono le azioni criminali di Stalin in quanto commesse sotto la bandiera con disegnata la falce e il martello, è un errore che potremo pagare a un prezzo altissimo in termini di vite umane.
Bisogna condannare fermamente Hamas per ciò che ha compiuto: nulla può giustificare mattanze, rapimenti e lanci di missili sui civili. Ma chiedersi quali siano le cause di tale violenza ci aiuterebbe a fermarla, o perlomeno a limitarla. Netanyahu non ha mai compiuto gesti di apertura nei confronti dei palestinesi, e questo rende il clima ancora più teso. E a rimetterci spesso sono i civili. Non solo quelli che abitano il territorio conteso, ma anche tutti gli altri che vivranno nel terrore di attacchi terroristici, come gli appartenenti alle comunità ebraiche europee.