Matteo Chelli, impegnato come consigliere di quartiere a Firenze e appassionato di montagna, sta costruendo un curriculum invidiabile attraverso le sue scalate. Dalle prime vie di arrampicata sulle nostre splendide Apuane, Matteo sta progressivamente ampliando la sua esperienza insieme ai suoi compagni di cordata. Il frutto di questo percorso si riflette nei suoi racconti, come quello che segue, in cui ci guida attraverso la sua intimità e i suoi pensieri durante quella che lui definisce "una missione spirituale".
Racconto di quella che si può definire, più che una salita di montagna, una missione spirituale prima ancora che fisica
Partiti sabato mattina alle 06:00 da Firenze in autobus, raggiungiamo Courmayeur intorno alle 14:00. La scelta di non utilizzare mezzi privati, oltre che dettata dalla volontà di lasciare a casa, almeno per un po’, alcune delle comodità di ogni giorno e immergersi nell’atmosfera briosa dell’avventura, risulta funzionale al completamento del percorso che ci prefiggiamo di compiere: l’ascesa del Monte Bianco dalla via normale italiana, anche detta “via del Papa” in onore del sacerdote Achille Ratti, futuro papa Pio XI, il quale, in compagnia di Luigi Grasselli, raggiunse per primo, nel 1890, la cima del Bianco dal versante italiano. La giornata trascorre veloce e tra una chiacchiera e l’altra arriviamo a sera. Mangiamo e cerchiamo di dormire fin da subito, consci del fatto che nei giorni che seguono il sonno sarà solo un miraggio.
Domenica mattina sveglia alle 07:00, colazione frugale e partenza con la prima navetta disponibile per la Val Veny alle 08:15. Alle 08:45 siamo in marcia per il rifugio Gonella, punto di appoggio della nostra salita a 3071 m s.l.m. Il percorso per raggiungerlo è lungo e richiede attenzione. Attraversiamo prima il ghiacciaio del Miage, interamente o quasi ricoperto da detriti (anche se sotto vivo e vegeto!) e poi percorriamo il tratto di sentiero esposto e in alcuni punti attrezzato che ci porta, dopo ben 5 ore e 30 minuti, 11km e 1416 metri di dislivello positivo, al rifugio, ai piedi del ghiaccio del Dôme. Siamo nel cuore del massiccio del Monte Bianco, circondati da alcune delle più famose e imperiose vette dell’arco alpino sul quale i grandi alpinisti del passato hanno compiuto le loro imprese eroiche. Un luogo magico, remoto e lontano dalla civiltà. Il silenzio che regna è interrotto esclusivamente dalle frequenti scariche di roccia e ghiaccio. Un rumore impressionante e al tempo stesso pauroso che ci fa sentire tanto piccoli quanto impotenti di fronte alla forza impetuosa della Natura. Trascorriamo le ore restanti del pomeriggio sorseggiando qualche bevanda e chiacchierando con gli altri temerari che fra qualche ora si cimenteranno nella nostra stessa sfida. Al rifugio ci sono in tutto una quindicina di cordate che tenteranno l’ascesa del Monte Bianco, molte delle quali composte da guide e rispettivi clienti. Altri ospiti hanno già salito la montagna e attendono il giorno successivo per scendere, ricaricati delle energie. Conosciamo dei ragazzi veneti, una coppia di Varese e ritroviamo un ragazzo che il giorno prima era nel nostro stesso albergo. Alle 18:30 siamo a tavola per la cena e alle 20:00 sotto le coperte in un’unica camerata. C’è chi prova a dormire, chi osserva il Sole ancora all’orizzonte e chi, invece, riesce già a russare (beato lui!).
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La sveglia suona impietosa alle 23:55, giusto 5 minuti prima dell’ora fissata per la colazione (o dello spuntino di mezzanotte, a seconda dei punti vista). Mangiamo qualcosa, ci imbraghiamo, controlliamo il materiale e alle 00:50 ha inizio, finalmente, la nostra salita. Il buio è totale e il cielo stellato come mai lo avevamo visto. Solo grazie alla luce delle frontali riusciamo a scorgere le tracce di passaggio e a seguire la via. Vediamo le luci delle altre cordate, alcune più in alto, altre più in basso. Il ghiacciaio del Dôme, che si attacca poco dopo il rifugio, è ancora in buone condizioni rispetto al normale. I ponti di neve sono stabili e consentono di attraversare crepacci larghi e profondi quanto palazzi. È una sensazione strana quella che si prova salendo, un mix di emozioni che attanagliano la mente.
Ti senti tremendamente solo, ma sai che puoi farcela, che non devi demordere e continuare a salire. Tornano alla mente pensieri, esperienze di vita, brani (e chi più ne ha, più ne metta), alcuni positivi, altri meno. Ogni passo è una conquista verso la cima. Intorno alle 03:30 arriviamo sulla cresta di Bionassay, quasi a quota 4000m s.l.m. L’esposizione, per qualche centinaio di metri, è fortissima da entrambi i lati della montagna. Le luci delle nostre frontali si perdono nel vuoto. Passo dopo passo, con calma e sangue freddo, superiamo il tratto più ripido e stretto e ci dirigiamo verso il Dôme du Goûter. Giunti a questo punto scorgiamo all’orizzonte le file di alpinisti che salgono dalla Francia che ci fanno tornare un po’ alla civiltà (non che prima si stesse poi così male, anzi!).
Ci fermiamo per una pausa a Capanna Vallot, piccolo rifugio di emergenza ubicato a quota 4362m s.l.m. Un po’ di tè caldo, qualche barretta e si riparte per compiere gli ultimi 500 metri di salita che ci porteranno dritti sul tetto d’Europa. La cresta finale (Arête des Bosses) non è difficile, ma neanche poi così banale. L’esposizione è sempre elevata. Ai lati si vedono le impressionanti pareti del Monte Bianco sormontate da giganteschi seracchi. Sono immagini che tolgono il fiato (già ci pensa la quota). Un centimetro alla volta - come direbbe Al Pacino - raggiungiamo la cima (4807m s.l.m.) alle 07:25, 6 ore e 35 minuti dopo essere partiti dal rifugio. È un’emozione indescrivibile, una gioia immensa che ci fa scendere anche qualche lacrima. Il Sole batte dritto davanti agli occhi. Intorno a noi solo montagne e guglie innevate. Giù, molto più in basso, le vallate di Courmayeur e Chamonix.
Siamo in anticipo sui tempi ma non possiamo attardarci più di tanto. La discesa, che avverrà dalla via normale francese, è lunga e richiede, come al solito, attenzione. In particolare, dobbiamo attraversare il tristemente noto Grand Couloir entro le 12:00 per ridurre al minimo il rischio di caduta pietre. Perdiamo quota velocemente fino al rifugio Goûter (3835m s.l.m.). Da lì inizia un tratto attrezzato con corde e canaponi che ci porta fino al punto di attraversamento del maledetto canale, negli anni teatro di numerosi incidenti, talvolta mortali. Mentre scendiamo assistiamo anche ad una scarica di materiale (fortuna che nessuno stava transitando in quel frangente).
Passiamo il tratto impestato corricchiando (ai piedi abbiamo i ramponi e la traccia non è molto larga) e sperando nella buona sorte. Siamo fuori dalle difficoltà e dai pericoli (ma che sudata!). L’impresa però non è solo salire sulla montagna, ma anche tornare a casa. Altre due ore le impieghiamo per raggiungere la fermata del trenino a cremagliera. Prendiamo poi una teleferica, un autobus che ci porta a Chamonix e infine un altro autobus per tornare in Italia a Courmayeur alle 19:00 in punto. Sono 19 ore che siamo svegli, a zonzo per ghiacciai e cotti a puntino. La fatica è tanta, ma le emozioni provate ripagano i sacrifici imposti al nostro fisico e alla nostra mente. In appena un giorno e mezzo, infatti, abbiamo percorso ben 27,27 km (3307 di dislivello positivo e circa 2800 di negativo). Tornati in albergo, ceniamo e andiamo letto, per poi far rientro il giorno successivo (cioè oggi) a casa.
Al termine di questo viaggio non posso che, molto semplicemente, essere felice. Per qualcuno una salita del genere è poco più che una passeggiata. Per me, invece, è un sogno che si avvera e grazie al quale ho potuto assaporare il gusto della vita come forse mai prima d’ora. Un sorso di tè caldo in una notte gelida, l’alba che colora di arancione l’orizzonte, quasi come fosse un quadro. Piccoli dettagli a cui, molto spesso, per tanti motivi, non diamo il giusto peso.
Non dimenticherò mai tutto questo. Ad maiora.
Matteo Chelli