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L'eroismo dei migranti. Rimbalzati, derisi, umiliati: possono darci una lezione di vita.

Un approfondimento a cura del nostro giovane giornalista Paolo Insolia

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Migranti. Migranti. © N.c.
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Un approfondimento a cura del nostro giovane giornalista Paolo Insolia - L’eroismo dei migranti. - Il numero 1489 della settimana scorsa di Internazionale si apre con una foto drammatica, per usare un eufemismo: nelle due pagine che la riportano per intero campeggia in primo piano una enorme petroliera rossa, battezzata Alithini II. Che è una nave vecchia lo si capisce dalla vernice, scrostata in più punti. E’ in mare, vicino alla terraferma, e l’ombra ne oscura le acque, che al suo passaggio assumono il colore dell’inchiostro.

Su un fazzoletto di cemento a forma di triangolo situato all’estremità della nave - anch’esso rosso e incrostato - che alcuni pensarono di chiamare timone, si vedono seduti tre uomini. Hanno la schiena incurvata, tanto è basso il tettuccio sopra di loro. Hanno tutti la pelle nera, e sono il volto della fatica e della disperazione. La descrizione riporta che si trovano a pochi passi da Las Palmas, la più grande delle isole Canarie, in Spagna. La foto è stata scattata il 28 Novembre 2022. I tre, partiti da Lagos - la più grande città della Nigeria - erano in viaggio da undici giorni.

Undici giorni non sembrano molti per noi che abitiamo nel nord del mondo, e spesso passano senza neanche accorgercene, complice una routine monotona e senza novità. Ma undici giorni possono sembrare infinitamente lunghi se seduti su una scomoda superficie di cemento a ridosso di una petroliera in viaggio. Provate a immaginare la paura, il freddo, la fame, la sete, la fatica, e chissà quanti altri dolori fisici e emozioni spaventevoli che i tre hanno provato nel corso di un viaggio così lungo e pericoloso. Viene naturale domandarsi come abbiano fatto con il cibo e l’acqua, il sonno, i bisogni, ma soprattutto come siano potuti riuscire a non farsi prendere dallo sconforto, lasciando che le acque prendessero i loro corpi tramortiti e l’anima tornasse così in cielo, in attesa di un conforto e di una accoglienza che in vita non ha avuto.

Conosciamo tante storie simili, e di alcune di queste ci sono giunti immagini e video, come quello filmato in Afghanistan nell’agosto del 2021 dopo l’evacuazione dei soldati americani dal paese, e la successiva ripresa del potere dei talebani, membri appartenenti a un’organizzazione politica e militare che segue i precetti dell’Islam radicale.

Nel video in questione si vede decollare un aereo militare statunitense, e pochi secondi dopo un paio di cerchi rossi delimitano delle sagome precipitare; quelle sagome appartengono a civili afgani che pur di scappare dall’inferno di un regime dittatoriale che applica la sharia - la legge islamica - alla lettera, con cui il paese fece già i conti in passato, si sono aggrappati a un aereo senza neanche conoscere la destinazione. Tra questi era presente una giovane promessa del calcio, Zaki Anwari, di diciannove anni. Sono tutti deceduti.

Immaginiamo anche solo per un minuto quanto grande fosse la paura che hanno provato queste persone quando hanno saputo che i militari statunitensi, e di conseguenza la stabilità che essi garantivano, stavano per lasciare il paese. Una paura tanto forte da aggrapparsi a un aereo, senza pensare a una via più facile da percorrere con più calma e lucidità nei prossimi giorni. No, dovevano traslocare subito, forse perché coscienti che la prima azione compiuta dai talebani sarebbe stata quella di presidiare giorno e notte le strade, in modo tale che nessuno uscisse dai confini nazionali senza un motivo valido, e rimanere così intrappolati anni, forse decenni, in uno stato castrante e violento.

Sapevano che non ce l’avrebbero mai fatta; in alta quota il vento è devastante, e manca l’ossigeno. Immagino si siano affidati a dio, Allah per i musulmani, e via, verso luoghi migliori che promuovono lo stato di diritto.

Se fossero atterrati sani e salvi, quei civili afgani sarebbero diventati migranti in un paese estero. Anzi, migranti lo sono diventati dal momento in cui hanno abbracciato l’aereo. Lo stesso i tre nigeriani della petroliera; quando si sono accovacciati sul timone, lì sono diventati migranti. Forse anche prima, nell’esatto momento in cui hanno pensato di andarsene dal paese d’origine.

A noi occidentali certi gesti possono sembrare così assurdi che fatichiamo a credere siano stati compiuti da esseri umani. Crediamo che soltanto creature senza intelletto, il senso del pericolo e della misura, potrebbero arrivare a tanto. Ammetto di averlo pensato anch’io; sono rimasto imbambolato a fissare la foto della petroliera dicendomi che fosse impossibile, che ci fosse un errore, che non potesse essere vero. Ma poi la realtà mi è apparsa in tutta la sua chiarezza, e mi è scesa una lacrima.

 

Quando un individuo vive in condizioni precarie, senza acqua potabile e cibo a sufficienza, o sotto un regime che punisce lapidando le donne che commettono adulterio, mette a morte gli omosessuali e limita libertà fondamentali come quella di opinione e di stampa, farebbe di tutto per fuggire, anche a costo di rischiare la vita. La vita, per essere considerata tale, necessita di determinate condizioni. Se sono assenti, il soffio vitale presente in ognuno di noi lascia il luogo in cui si trova per cercarne uno migliore. La prospettiva di morire durante il viaggio è più allettante di vivere un’esistenza di sofferenza. Ecco da cosa nasce la migrazione, fenomeno che ha caratterizzato gli uomini di ogni era.

 

Senza addentrarci nel labirinto delle politiche europee, e non solo, nei riguardi dell’immigrazione, c’è qualcosa che possiamo imparare dai nostri fratelli migranti? Gli stanziali sono sempre stati convinti che debbano essere loro a imparare, i nuovi arrivati; la lingua, le leggi e le regole del posto, i costumi. In realtà sono proprio i non migranti, e soprattutto noi occidentali, a dover essere istruiti sulla materia più significativa che esista, materia che non insegnano nelle scuole, ma che si impara entrando in relazione con il prossimo. Sto parlando della vita. Per vivere davvero sono necessarie delle condizioni, sia interne che esterne; non basta respirare e dormire.

 

La maggior parte di noi vive le giornate chinata sul telefono, immersa nell’apatia e nella scontentezza, in un recinto di abitudini soffocanti. Là fuori invece c’è chi soffre per questioni ben più importanti, e si aggrappa con le unghie per risolverle. Guardiamoli, i migranti! Osserviamo i loro volti affranti, ma speranzosi. Osserviamoli mentre vengono tratti in salvo, e sentono che la vita gli ha concesso una possibilità. Hanno visto guerre, carestie, povertà, gli occhi di figli, mariti e mogli lacrimare per la loro partenza, ma sono lì, pronti a mettersi in gioco in luoghi lontani e non familiari.

I migranti ci ricordano che la vita c’è, ed è preziosa. Ci ricordano di osare, e che non c’è nulla che non si possa sistemare. I migranti non sono soltanto forza lavoro da inserire in fabbriche a corto di dipendenti, ma individui che trasudano vita. Ricordiamocelo soprattutto quando sentiamo prevalere il razzismo e ci sembra che l’unica soluzione sia riportarli indietro.
Paolo Insolia

 

 

 

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