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La lettera aperta della Comunità Ebraica di Firenze indirizzata al Consiglio Comunale

Missiva inviata in seguito al convegno "Pace e giustizia in Medio Oriente".

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Enrico Fink, presidente comunità  ebraica Firenze Enrico Fink, presidente comunità ebraica Firenze © Wikipedia
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Gentile Presidente del Consiglio Comunale di Firenze, Luca Milani
Gentili membri del Consiglio Comunale di Firenze

e p.c. gentile Sindaco, Dario Nardella

Vi scrivo cercando, al meglio delle mie capacità, di interpretare sentimenti largamente condivisi nella generalità della Comunità che rappresento.

Passato il Sabato, le cui regole ci impedivano di essere presenti all’evento del 24 febbraio scorso, abbiamo ascoltato la registrazione del convegno “Pace e giustizia in Medio Oriente” con un crescente senso di inquietudine e amarezza.
Alla fine dell’ascolto, il sentimento prevalente era quello di profonda delusione per il percorso intrapreso con questo Consiglio, percorso che ci aveva visto anche partecipi nel co-organizzare il primo appuntamento.

Avevamo appreso e compreso da parte del Presidente del Consiglio Comunale il desiderio di articolare una riflessione sulla pace su più appuntamenti, concentrandosi via via su temi specifici  - così avevamo voluto fare la nostra parte, uscendo dal ruolo proprio di una comunità ebraica che, come non ci stanchiamo di ripetere, non rappresenta parti in causa in questo o in altri conflitti, ma collaborando con l’associazione Italia Israele per portare a Firenze una coppia di persone impegnate da decenni sul campo  per favorire dialogo e convivenza fra palestinesi e israeliani.
Era una scelta non scontata (come non era certo scontato per l'associazione Italia Israele portare al Comune di Firenze come relatori persone notoriamente all’opposizione dell’attuale governo); ma ci tenevamo a fare la nostra parte riconoscendo, o credendo di riconoscere, la volontà da parte del Consiglio di creare una riflessione degna della storia fiorentina, originale e davvero capace di costruire ponti di dialogo e comprensione reciproca.

Ecco dunque il motivo dell’amarezza e della delusione.
Non certo perché si è parlato del dramma dei palestinesi, perché ancora una volta ribadiamo che com’è del tutto naturale ci stanno a cuore i diritti, la pace e la serenità di tutta la regione, di tutti i suoi abitanti, ebrei, cristiani o musulmani, israeliani o palestinesi, e la morte di qualunque essere umano ci crea angoscia indipendentemente dalla sua religione o cultura o nazionalità.

No, l’amarezza è cresciuta man mano che diventava sempre più chiaro che invece di cercare prospettive di pace si riproponeva per l’ennesima volta una sterile narrativa completamente di parte, volta non al riconoscimento delle aspirazioni e dei diritti di tutti, ma alla calunnia, al veleno non solo contro le scelte politiche di un governo, ma contro l’idea stessa dell’esistenza ebraica nella regione, portando avanti anche nel linguaggio la politica di rovesciamento delle responsabilità e della sostituzione delle vittime che spinge il campo anti israeliano ad assumere continuamente parole e concetti mutuati irresponsabilmente dalla Shoà – dall’uso della parola “genocidio” come fosse un sostantivo qualunque, fino, in una progressione che sarebbe comica se non fosse spaventosa, all’uso sistematico delle parole di Primo Levi fuori contesto, per arrivare in un tripudio di applausi della sala all’arruolamento nell’immaginario antiebraico della povera Anne Frank, a cui diciamocelo, mancava solo questo.

Gli applausi sono stati appunto un elemento significativo dell’amarezza provata: assistiamo da tempo a una deriva con cui una parte del mondo italiano, evidentemente seccata dal “troppo” parlare del fascismo e dei suoi crimini in questi ultimi vent’anni di Giorno della Memoria, si sente sollevato e quasi esilarato nel potersi finalmente sfilare dall’imbarazzante peso della ricostruzione delle proprie responsabilità collettive, e rovescia sulle vittime di ieri un mal digerito e mal diretto senso di colpa.
Niente di nuovo, ma non ci aspettavamo di trovare il Consiglio Comunale partecipe di questo processo.

Ma ancora tutto questo, pur grave in un contesto di crescita rapidissima di episodi di antisemitismo sul nostro territorio nazionale e locale, non ci avrebbe spinto a scrivervi, oggi.
Ciò che è veramente insostenibile per noi non come Comunità Ebraica ma più semplicemente come gruppo di cittadini che si era affidato a questo Consiglio e aveva pensato di partecipare a un percorso di riflessione sulla pace, è stato ascoltare la progressiva crescita nel Salone dei Cinquecento di una retorica di guerra.

Le affermazioni del professor Pappé, che invitano a gioire della “imminente fine” del “regime” rappresentato dallo Stato d’Israele, invocando un “fronte unico” del mondo arabo e, con frasi rilanciate da Francesca Albanese, la “rottura della diga” che porterà a un unico “stato di Palestina fra il Giordano e il mare”, stato dove (bontà loro) potranno avere cittadinanza anche quegli ebrei che non siano “i sionisti”, sono un concreto invito alla violenza.
Di più, sono l’antica e stantia retorica massimalista e trionfalista che, come Pappé ha ribadito, proclama “impossibile la pace” con Israele.

Quelle parole, queste false idee di imminente vittoria e di rifiuto del compromesso e della pace non sono ammissibili nel consesso civile del Salone dei Cinquecento.
Mentre il professor Pappé sparge odio dal suo esilio dorato in terra d’Inghilterra, a Gaza, in Israele, le persone muoiono.
Il sangue scorre e parte della responsabilità morale è nei cattivi maestri che da troppo tempo incitano gli estremisti e mortificano e i veri pacifisti in entrambi i campi.

Che il Presidente del Consiglio Comunale abbia assistito silente a queste affermazioni, di più, abbia applaudito e stretto mani dando evidente sostegno alle parole espresse, è una vergogna verso le vittime palestinesi prima ancora che israeliane.
Ognuno è libero di esprimere le sue idee, ci mancherebbe: ma in un contesto di poca e cattiva informazione sulla storia di quella regione, permettere che quelle parole malate fossero espresse senza nemmeno un commento, sotto una patina di finto pacifismo, ascoltate non solo dal pubblico in sala ma da centinaia e forse più di singoli e gruppi d’ascolto in tutta la città, applaudite e condivise senza comprenderne il portato di violenza, il portato di sangue – tutto ciò è una responsabilità gravissima.

L’entusiasmo con cui una parte della città, mal guidata e mal consigliata, ha accolto e accoglie queste parole che continuano a rimbalzare sui social del nostro associazionismo, ci fa sentire, per la prima volta da decenni, isolati, accusati, nemici quasi, nella nostra città.

Di fronte a simili avvenimenti, la più naturale reazione sarebbe chiudere rapporti e collaborazioni con gli organismi responsabili.
Ancora una volta, la violenza verbale e ideologica di chi sotto falsa pretesa di pacifismo invoca in realtà la guerra, tende a tappare la bocca prima di tutto a chi la pace ha veramente nel cuore.

Qualche giorno fa, però, abbiamo appreso con sgomento un’altra, diversa notizia non direttamente collegata: la consegna a Stefano Jesurum a Milano di una lettera anonima minacciosa, che paventava il suo diventare “pietra d’inciampo” davanti al suo portone.
Lo cito perché Jesurum è un esempio classico di persona impegnata nel dialogo e nel riconoscimento dei diritti di entrambe le parti nel conflitto israelopalestinese; e non è un caso che riceva queste minacce – sono gli operatori di pace i veri nemici degli estremisti.
E allora, per opporsi a questa deriva e anche in solidarietà a Stefano, crediamo non ci si debba ritirare dall’impegno. Anzi, si debba restare, tutti noi impegnati veramente nella pace, come “pietre d’inciampo”, come un disturbo nel fluire troppo facile delle parole d’odio e di violenza che, questa volta, hanno trovato casa anche purtroppo nelle stanze del nostro Comune.

Pietre d’inciampo contro i cattivi maestri, per una prospettiva vera, indispensabile di pace.

Enrico Fink,
Presidente della Comunità Ebraica di Firenze

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