Lo scenario? Suggestivo. Al Museo di Coverciano – a due passi dal ritiro della nazionale di Antonio Conte – si è tenuta ieri la presentazione del libro Il calcio Italiano 1898-1981.Economia e Potere, scritto dal Prof. Nicola de Ianni, docente alla Federico II di Napoli in storia economica e dell’industria. Un'accademico che, alla fine della carriera, si è voluto «togliere lo sfizio di fare un’analisi accurata delle cause che hanno trasformato il calcio in un’azienda votata al business». Non sono mancate presenze illustri: sotto la guida carismatica di Marino Bartoletti, giornalista sportivo e conduttore televisivo, hanno preso parola Fino Fini, presidente del Museo e figura a fianco degli azzurri per oltre 40 anni, Matteo Marani, direttore de Il Guerin Sportivo, e Marcello Lippi, Ct azzurro eterno, perché – a detta di Bartoletti – «chi vince un Mondiale entra nella storia della Nazione». Il libro di De Ianni tratta di calcio, ma non di calciatori. E’ uno spaccato con cui ripercorrere – numeri alla mano - l’evoluzione di uno sport che ha venduto l’anima al diavolo, contratto dopo contratto; e che dall’epoca dei mecenati (come gli Agnelli degl’anni ’20) è arrivato agli ’80 con malori congeniti. Spie lette in anticipo da poche menti acute, e responsabili della mutazione del gioco in un’industria capace nel contempo di muovere miliardi e perdere valori primordiali, come la passione. L’anno in cui si concludono le 214 pagine è il 1981. E non a caso: in quel periodo si impongono gli sponsor, si impone la logica del business, e, di lì a breve, viene a mancare la figura portante di Artemio Franchi, unanimemente riconosciuto ieri come il miglior dirigente sportivo che il Bel Paese abbia avuto; capace di imporre l’autorità dello Stivale fino ai piani alti della Uefa. De Ianni, infatti, mette il punto scrivendo che proprio Franchi, nei suoi ultimi anni di vita, cominciava a guardare con sospetto alla piega presa dal mondo calcistico. Aveva paura: e non si sbagliava. Reduce dall’ultima esperienza in Cina, Marcello Lippi è intervenuto con sincerità tracotante. Ai giovani, ha detto, sta venendo a mancare il sentimento per questo sport, perché «la palla con cui si giocava in piazza, e si passavano i pomeriggi, non è più l’unico svago né l’unica priorità di un ragazzo: ci sono altre cose a cui pensare, troppe, e questo fa perdere al calcio un po’ di magia, facendolo diventare più meccanico e freddo». Anche se «l’amore per questo sport non morirà mai: fa parte dell’essere italiani». Il finale fiducioso, però, tradisce una consapevolezza: il cambiamento è già avvenuto. De Ianni, con i suoi dati e le sue ricerche – «che fanno paura perché reali», ammonisce Bartoletti – quel cambiamento lo mette a nudo. Ne esce fuori la fotografia attuale del calcio nostrano: esaltato, condannato, stigmatizzato e sezionato dalla stampa; frenetico per le concessioni dei diritti televisivi; trascinato nel giro convulso di un mercato, sempre vivo, che «brucia milioni senza rendersene conto». Il calcio Italiano 1898-1981 è una lettura necessaria. Un quadro economico finanziario che, finalmente, ricostruisce con coerenza una verità apparentemente nota ma ardua da analizzare nel suo insieme. Un’occasione per approfondire i meccanismi intrinsechi di uno sport che ha sempre vissuto al di sopra delle sue possibilità – perché osannato e venerato dal pubblico – e ora sembra aver perso il bilanciamento naturale che lo contraddistingueva, la sua anima profonda. De Ianni ci dice dove e quando il processo di industrializzazione ha avuto inizio. E poi pone una domanda, fatalmente retorica: cosa c’è di più importante, oggi, se non il fatturato?