12 Agosto 1944: a Sant’Anna di Stazzema l’eccidio nazifascista che trucidò 560 persone. Abbiamo incontrato due dei sopravvissuti a quella strage che ci hanno lasciato le proprie memorie.
Sant’Anna di Stazzema è una borgata sparsa, composta da più agglomerati di case che dalle prime propaggini apuane sporgono verso uno sconfinato panorama su Versilia, mare e Liguria. Un tranquillo paese montano come tanti altri, all’apparenza. Ma basta affacciarsi tra queste viuzze acciottolate per avvertire in maniera tangibile come l’aria qui sia intrisa di un qualcosa di differente; un’aria avvolta da un silenzio che scava abissi bui come le pagine scritte da questa storia.
Un silenzio laico, di pura contemplazione, che sembra squarciare il cielo sul punto sommitale della montagna; lassù dove si erge il monumento ossario, in memoria delle 560 vittime di questa strage. E nel silenzio è rimasto per decenni questo sterminio, confinato tra le convergenze di queste sperdute mulattiere; rimasto senza voce, come altri eccidi nazifascisti compiuti durante la seconda guerra mondiale. E le flebili voci, quelle dei pochi superstiti, per lungo tempo non hanno trovato consistenti amplificatori: questioni di diplomazia internazionale hanno tenuto tutto nell’oscurità, capitoli neri della nostra storia opportunamente stipati in sportelli chiusi a doppia mandata.
Solo nel 1994, con il rinvenimento di alcuni fascicoli riguardanti gli atti terroristici durante la seconda guerra mondiale, si poté fare luce sugli eccidi nazifascisti del periodo. E le voci della memoria, gradualmente, hanno potuto dispiegarsi di là da queste vallate.
Sant’Anna nell’estate del 1944 ospitava centinaia di sfollati: non distava molto dalla linea gotica ed era stata dichiarata dal comando tedesco “zona bianca”. Una zona franca nel calderone del conflitto quindi; ma il 12 agosto del 1944 le carte furono ferocemente rimescolate. Come si può spiegare a un bambino tale atrocità? “Non ci fu mai spiegato niente e guai a parlarne!”.
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Ecco il reportage con le testimonianze dirette:
Adele all’epoca della strage aveva appena quattro anni ma tra i ricordi più sbiaditi emergono vividi i dettagli di quel 12 agosto, quando fu strappata con i famigliari a una colazione con gli sfollati che popolavano la borgata.
“Ricordo che ci portarono ad un muro, la mia ed un’altra mamma chiesero pietà per i propri bambini, ma i soldati si tolsero la pistola dal fodero e iniziarono ad uccidere”.
Tra tutti gli spari però si aprì il pertugio per la salvezza di Adele:
“Una porta si dischiuse alle nostre spalle e mia sorella riuscì a trascinarmi dentro. Presto però dettero fuoco alle case e dovevamo riuscire: alla porta giaceva mia madre; le mie gambe erano troppo corte per poterla scavalcare e dovetti passare sopra il suo corpo”.
E davanti a quella porta Adele si è soffermata spesso negli anni a seguire, forse nella speranza di sentirsi sussurrare quelle risposte che neppure il tempo è stato in grado di fornirle
“Venivo sempre a cercare la mia mamma qui. Ho tribolato tanto, le sorelle più grandi mi hanno aiutata, ma allora non c’erano tutti i mezzi che ci sono adesso”.
Ogni passo sul manto erboso della piazzetta della chiesa è un affondo nello strazio delle anime che qui furono bruciate da una furia che spiegazioni non ha e non può averne.
Perché Sant’Anna?
“Forse perché c erano i partigiani, ma se non c’era la guerra non esistevano nemmeno i partigiani!”
Enrico Pieri nel 1944 aveva dieci anni quando l’impeto nazifascista deflagrò nella cucina di casa sua:
“Ci misero un attimo per uccidere i miei familiari e la famiglia Pierotti, ma non si accorsero che tra i caduti morti nella cucina c’erano tre bambini rimasti in vita”.
I tre seppero attendere il momento giusto per uscire da quelle mura arroventate: la loro salvezza si materializzò in una piana di fagioli tra i terreni coltivati nei pressi delle abitazioni; un rifugio alleato nella tempesta di fuoco.
“Aspettammo per ore mentre sentivamo gli spari ed il crepitare del fuoco che incendiava le case”.
“Vivere a Sant’Anna dopo la strage e senza genitori non fu facile: c’erano croci dappertutto e per mesi si sentì nell’aria l’odore della carne umana”.
Enrico ci racconta come è riuscito a ricostruire dalle proprie macerie; un percorso che lo ha portato a vivere più di trenta anni all’estero
“All’inizio non volevo avvicinarmi alla Germania, un po’ di rancore c’era...poi negli anni settanta sono arrivato ad iscrivere mio figlio a scuola di tedesco”. “Non volevo riscoperchiare il mio passato, ma quando mi hanno chiamato da Sant’Anna mi sono reso conto che di memoria ce ne era bisogno”.
Ma nelle parole di Enrico non serpeggia rabbia, non più.
“L’importante è far capire alle nuove generazioni che con il rancore e l’odio non si va da nessuna parte”.
E questa è un po’ la summa dell’atmosfera che si respira a Sant’Anna, perché il “mai più” qui va a braccetto col perdono, quel perdono che è una precisa urgenza incisa nelle pietre del monumento ossario; un anelito che dalla cima di questa vallata può propagarsi verso il mare ed oltre, con tutta la sua prorompente intensità.
Perché no, con il rancore e con l’odio non si va proprio da nessuna parte.