10 APR 2025
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L'azione pedagogica di Don Milani. Uno scritto di Bruno Becchi...

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L'azione pedagogica di Don Milani. Uno scritto di Bruno Becchi... L'azione pedagogica di Don Milani. Uno scritto di Bruno Becchi... © n.c.
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Dall’amico Bruno Becchi riceviamo e molto volentieri pubblichiamo queste sue note su don Lorenzo Milani. Ci scrive: Cari amici, vi faccio avere in allegato un mio articolo sulle matrici culturali del pensiero di don Milani, uscito all'inizio questa settimana, su una rivista specialistica, legata all'Università degli Studi di Firenze.  Se a qualcuno avrà voglia e lo leggerà, ne sarò felice.

Accettatelo comunque come segno di stima e di amicizia. Un caro saluto,  Bruno

L’azione pedagogica di don Lorenzo Milani. Matrici e analogie culturali
di Bruno Becchi

Un percorso volto a suggerire alcune riflessioni sulle matrici e le analogie culturali inerenti il pensiero e l’azione pedagogica di don Lorenzo Milani ha come punto di partenza obbligato una considerazione sull’ambiente intellettuale alto-borghese, cui appartiene la sua stessa famiglia.

 

Certamente influenti sulla sua formazione sono stati i legami più o meno diretti con figure di spicco della cultura italiana e mitteleuropea, dal filologo Giorgio Pasquali, all’editore Leo Olschki, dallo scrittore Italo Svevo allo psicanalista Edoardo Weiss – terapeuta, fra gli altri, del poeta Umberto Saba – allo scrittore irlandese James Joyce. Non solo, ma è lo stesso albero genealogico di Lorenzo Milani a presentare figure interessanti dal punto di vista culturale.

 

Sul ramo paterno, figura il bisnonno Domenico Comparetti, docente universitario di letteratura greca, filologo, conoscitore di una ventina di lingue, poi senatore del Regno d’Italia. Si trova il nonno Luigi Adriano Milani, professore di archeologia e direttore del museo archeologo fiorentino. Vi è poi il padre Albano, laureato in chimica, ma anch’egli dedito a studi umanistici e autore di saggi di critica letteraria ; conosceva bene sei lingue che utilizzò anche per comporre poesie. Riguardo all’altro ramo, la madre di Lorenzo, Alice Weiss, era cugina di Edoardo Weiss, allievo di Freud, fondatore nel 1936 dell’Associazione Italiana di Psicoanalisi e amico personale di Joyce, lo scrittore irlandese che per un certo periodo insegnò lingua inglese alla Berlitz School di Trieste e del quale anche la stessa Alice aveva frequentato i corsi.

I Weiss erano in rapporti di amicizia e di parentela anche con la famiglia Schmitz, cui apparteneva Aron Hector, il quale altri non era che lo scrittore Italo Svevo. Infatti Emilio Weiss, padre di Alice, era un amico del futuro autore della Coscienza di Zeno, mentre Ottocar – che di Alice era cugino –, aveva sposato Ortensia, figlia di un fratello di Svevo.

Ai riflessi provenienti da un siffatto milieu socio-culturale, vanno aggiunti, quali elementi qualificanti della formazione di Milani, la sua breve esperienza di pittore e l’incontro con il maestro Hans Joachim Staude, il quale proprio per la sua idea di arte come « ricerca dell’assoluto », contribuirà, suo malgrado, a portare il giovane Lorenzo a quella che sarà la sua scelta di vita definitiva : la conversione al cattolicesimo e la consacrazione sacerdotale.

Ma che Chiesa era quella che don Milani incontrò e della quale entrò a far parte con l’ingresso in seminario, nel novembre 1943, e la successiva ordinazione presbiterale ? In senso generale possiamo dire che era ancora la Chiesa del Concilio Vaticano I, del papato intransigente di Pio XII, del catechismo schematico di Pio X, delle estreme rigidità disciplinari e dello studio di una teologia ancora molto statica e assoluta.

 

Una Chiesa però che, a partire dal papato giovanneo per proseguire con quello paolino, riceverà un deciso impulso di rinnovamento nel campo dell’evangelizzazione, dell’ ecumenismo edell’approccio al mondo ed alla modernità. Don Milani visse appieno l’epoca di una Chiesa in una fase di passaggio da un Concilio Vaticano all’altro, con tutte le incertezze, le contraddizioni, gli ‘strabismi’ che una simile situazione inevitabilmente comporta. In siffatto contesto la Chiesa fiorentina rappresentò un caso emblematico di tale tempo, con la compresenza al suo vertice, dal 1954 al 1962, del card. Dalla Costa e dell’arcivescovo coadiutore, mons. Florit.

Si trattava di due personalità molto diverse fra loro, entrambe originariamente estranee all’ambiente fiorentino, essendo veneto il primo e friulano il secondo ; ed ancora, il primo era austero, rigoroso, ligio alle regole, ma aperto al dialogo, attento alle nuove spinte spirituali e culturali, capace di slanci paterni verso la sua gente, specialmente se sofferente, come quando fu tra la popolazione civile durante la guerra lo accolse, nel 1959, in arcivescovado gli operai della Galileo respinti dalle cariche della polizia; il secondo era rigido, freddo, chiuso, arroccato su un’idea di Chiesa in sintonia con quella del Coetus Internationalis Patrum, il gruppo di prelati tradizionalisti che prenderà parte al Concilio Vaticano II da posizioni tenacemente conservatrici e del quale Florit era membro influente.

In mezzo a due forme ecclesiali così diverse e per quasi un decennio conviventi, il cattolicesimo fiorentino si caratterizzò per una straordinaria vitalità e molteplicità di proposte in ambito pastorale, politico e culturale. In questo senso, significativa fu l’esperienza politico-amministrativa del sindaco La Pira, che, di quelle attività, opere ed esperienze di fede, rappresentò il solido sostrato. Nel complesso dunque il fervore che caratterizzò l’ambiente fiorentino di quegli anni finì per rappresentare la frangia più avanzata e vivace del cattolicesimo nazionale dell’epoca. Infatti, nonostante la permanenza di forme di rigidità tridentina, accentuatesi a partire dal marzo 1962, quando mons.

Florit successe al card. Dalla Costa alla guida dell’Arcidiocesi, il capoluogo toscano si configurò come una sorta di vaso di coltura di iniziative quanto mai interessanti, a loro volta frutto dell’intraprendenza di personalità di spicco, ancorché diverse tra loro. Per limitarci ad esempi riconducibili all’ambito strettamente ecclesiastico, significative furono le figure di don Giulio Facibeni, con il suo impegno educativo e le sue opere di carità legate alla « Madonnina del Grappa » e rivolti, l’uno e le altre, alla promozione umana e cristiana dei figli del popolo del quartiere operaio di Rifredi; di mons. Gino Bonanni e mons. Enrico Bartoletti, che dal Rettorato del Seminario, intrapresero un’attività di rinnovamento dello studio della teologia e più in generale della formazione dei sacerdoti; di don Divo Barsotti, fondatore della Comunità dei Figli di Dio e interprete di un ascetismo che si sostanziava della mistica ortodossa orientale; di don Luigi Rosadoni, fautore, con la sua Comunità della Resurrezione, di una meditazione che, accanto ai temi liturgici e sacramentali, arrivò a coinvolgere anche aspetti più prettamente culturali e sociali, quali la pace, la giustizia la solidarietà.

Personalità di spicco del mondo ecclesiastico furono anche padre Ernesto Calducci con la rivista «Testimonianze » e le sue aperture alle tematiche legate alla pace, ai diritti umani e, negli ultimi anni della sua vita, all’idea di un nuovo ordine planetario, in cui le relazioni umane fossero improntate all’insegna non più del dominio, ma della comunione; padre Giovanni Vannucci e padre David Maria Turoldo, in quel tempo entrambi alla Santissima Annunziata, che si caratterizzarono, il primo per un tentativo di rinnovamento spirituale sviluppatosi in modo prioritario attorno al tema della preghiera e delle sue forme, con attenzione anche a quanto proveniva dalle religioni orientali ed asiatiche in particolare, il secondo per la sua spiccata sensibilità e la sua ferma condanna nei confronti di ogni tipo di oppressione sia essa economica, politica e sociale ; don Raffaele Bensi con il suo carisma di confessore e di guida spirituale ; don Danilo Cubattoli, impegnato prima nelle realtà di emarginazione, disoccupazione e disagio dei quartieri più poveri fiorentini quindi tra i carcerati degli ex-monasteri di Santa Teresa e delle Murate ed infine dell’Istituto penitenziario di Sollicciano ; don Renzo Rossi, prima cappellano di l’azione pedagogica di don lorenzo milani 77 fabbrica e poi per trent’anni missionario in Brasile tra gli ‘ultimi’ delle favelas e i detenuti politici della dittatura militare. Importante fu infine anche il ruolo svolto dalla rivista dei domenicani di San Marco « Vita cristiana », attraverso la quale penetrarono e si diffusero in ambito fiorentino le idee di Maritain, Mounier, Garrigou-Lagrange e di altri esponenti della Nouvelle Théologie. Riviste, personalità ed esperienze rilevanti furono proprie anche del laicato cattolico, a partire, come dicevamo, dal sindaco La Pira con il suo afflato interculturale e la sua proposta di pace tra le nazioni, i popoli e le religioni, per proseguire con Nicola Pistelli, che con « Politica » pose le basi di quello che oggi definiremmo il concetto di cattolico adulto e quindi dell’autonomia politica del credente.

Significativi furono anche i tentativi di dialogo con pensatori marxisti, promossi da Mario Gozzini e Giampaolo Meucci e le idee sui modelli culturali cristiani e le nazioni gravitanti nell’orbita del cristianesimo dibattute sul periodico «L’Ultima» di Adolfo Oxilia. In tale quadro di riferimento, un posto certamente non marginale occupano anche Mario Luzi, con la sua sensibilità poetica cristiana e la meditazione sul significato del dolore e quindi sulla figura di Cristo e del Dio che si è fatto uomo e da uomo soffre e muore, e l’architetto Giovanni Michelucci con la sua concezione di Chiesa pellegrina, di palese ispirazione paleocristiana, chiaramente espressa nell’‘edificio-tenda’ di San Giovanni Battista all’Autostrada; quel Michelucci, sia detto per inciso, cui don Milani aveva chiesto di prefare Lettera a una professoressa, cosa poi non andata in porto.

Questo è il contesto ecclesiastico e culturale del cattolicesimo fiorentino in cui si inseriscono il pensiero e l’opera di don Milani. Occorre precisare però che don Milani non è un prodotto di questo ambiente, viene da fuori, lo attraversa nei quattro anni di seminario, e poi sostanzialmente ne ritorna fuori. Soprattutto dopo l’esperienza di San Donato a Calenzano, la sua ‘diocesi’ ed il suo mondo sono Barbiana e i ragazzi di Barbiana e tutto ciò che di non trascendente è esterno ad essi conta solo in funzione di essi.

Rari, spesso conflittuali e condizionati dalla sensazione di non essere compreso sono, tranne poche eccezioni, i rapporti con i confratelli. Ne deriva una chiara percezione di isolamento e quindi un senso di inutilità e di profonda tristezza, dovuti alla consapevolezza che la condizione di un sacerdote isolato, come ebbe egli stesso a scrivere al momento di lasciare San Donato a Calenzano, « mette in questione la cattolicità di tutto il mio lavoro».

Un’affermazione ed uno stato d’animo che possono esser compresi appieno solo se teniamo conto che egli fu ... primum sacerdos. Sì, prima di tutto, soprattutto e nonostante tutto don Milani fu sacerdote ; maestro e homo civilis lo fu quasi suo malgrado. Si fece educatore ed emancipatore dei poveri proprio per dare concretezza alla sua vera vocazione: il sacerdozio. Del resto, l’idea di fondo di Esperienze pastorali – titolo di libro non potev

essere, da questo punto di vista, più significativo – è il concetto dell’istruzione civile come presupposto della nascita di un sentimento religioso autentico in grado di prendere il posto dell’indifferenza e della ritualità esteriore che egli poté constatare così diffuse fin dai primi anni del suo apostolato. È questo il punto da cui muovono il pensiero e l’azione di don Milani e dal quale essi traggono quella tendenza a considerare in modo interdipendente questioni appartenenti ad ambiti diversi – spirituale, civile e didattico su tutti – che ne costituisce una delle caratteristiche salienti. Quasi sfidando una vertigine di paradossi e di ossimori, potremmo dire che nella scuola rigorosamente laica del prete Milani il confine tra istruzione civile

1 Don Lorenzo Milani, Lettera a don Renzo Rossi, San Donato a Calenzano, in data 1 dicembre 1954, in Bruno Becchi, Lassù a Barbiana ieri e oggi. Studi, interventi, testimonianze su don Lorenzo Milani, Firenze, Polistampa, 2004, p. 123. ed istruzione religiosa appare estremamente labile tanto che l’insegnamento della parola sconfinava anche in quello della Parola, intesa nell’accezione evangelica di Verbum. Don Milani stesso una volta ebbe a dire « Qui si insegna la parola. C’è qualcosa di religioso in questo (...). Anche nel Vangelo Gesù è chiamato Parola ».1 In effetti il significato crescente che la Parola va assumendo nei testi biblici non fa altro che preparare l’evento centrale del Nuovo Testamento, appunto il Verbum caro factum est, la Parola che in Gesù si fa carne e diventa Uomo.

2 Non solo, ma l’analogia tra Parola-Uomo, nel senso evangelico, e parolauomo, nell’accezione pedagogica e civile milaniana, si fa ancora più stringente se si pensa ad alcune caratteristiche che il primo termine del binomio assume nei testi sacri della cristianità, a partire proprio dalla contrapposizione tra gli idoli che « hanno bocca e non parlano»

3 e il Dio di Israele che parla a tutti. Quindi la Parola non è nel cristianesimo un patrimonio riservato a pochi privilegiati, ma appartiene a tutto il popolo, così come a tutto il popolo, negli obiettivi della scuola di Barbiana, deve appartenere la parola, intesa nella sua accezione linguistica e comunicativa. In relazione ai principi che hanno ispirato il suo ‘fare scuola’, il nome di don Milani è stato avvicinato – ad esempio dallo studioso spagnolo padre José Luis Corzo Toral 4 – a quello del pedagogista brasiliano Paulo Freire, il quale ha sostenuto che la scuola riveste un ruolo fondamentale ed insostituibile se al proprio interno il rapporto educativo trainsegnante e allievo è mediato dalla realtà.

E a Barbiana si mirava a dare ai ragazzi una formazione utile e spendibile nella vita di tutti i giorni ; per questo metodi e contenuti eranocalibrati sui bisogni degli allievi e definiti in base alla convinzione che l’insegnamento dovesse partire dalla vita quotidiana e cogliere le sollecitazioni provenienti dalle situazioni contingenti. Tale conclusione ci permette di accostare il nome del don Milani educatore anche a quello di un altro grande ‘insegnante elementare’, Célestin Freinet.

Ciò non solo perché il maestro francese fondò nel 1930 a Saint-Paul de Vence – un villaggio delle Alpi Marittime – una scuola popolare, come avrebbe fatto oltre un quindicennio più tardi l’allora cappellano di San Donato a Calenzano ; ma anche per il fatto che Freinet, come don Milani, cercò di elaborare un metodo educativo in grado di rispondere alle esigenze di istruzione delle classi più povere ; un metodo basato sul dialogo, il lavoro di gruppo, la contestualizzazione delle materie in situazioni sociali concrete, la produzione autogestita di materiali scolastici, il contatto costante con l’esterno ; un’impostazione dell’insegnamento quindi che per molti aspetti richiama da vicino quella della scuola di Barbiana.

Un altro accostamento ancor più originale è quello tra don Milani e il pedagogista americano John Dewey. Al centro della visione filosofica e pedagogica di Dewey è il concetto dell’educazione come esperienza-chiave per promuovere il progresso e migliorare la società. Un’affermazione in piena sintonia con quanto pensava don Milani. Ma le analogie non si fermano qui. Infatti Dewey, che sintetizza il suo spiccato pragmatismo nella formula to learn by living and by doing, fonda nel 1896 la « scuola-laboratorio », la quale ha come cardini pedagogici l’idea che l’insegnamento deve partire dall’esperienza della vita quotidiana ed essere incentrato sull’attività, sull’interesse e sulla cooperazione sociale. Di tutto

1 Adele Corradi, Una scuola all’altezza dei bisogni dei ragazzi, in Bruno Becchi, Lassù a Barbiana ieri e oggi,

cit., pp. 259-260.

2 Vangelo secondo Giovanni, 1, 1-14. 3 Salmi, 115, 4-5.

4 J. Luis Corzo Toral, Don Milani e la educazione alla pace, in Giovanni Catti (a cura di), Don Milani e la pace, cit., pp. 42-53 ; Idem, Nuove pedagogie per l’uomo planetario : Paulo Freire e Lorenzo Milani, in L’attualità di don

Lorenzo Milani, a cura di Mariano Mariotto, Atti del ciclo d’incontri, San Bonifacio (vr), 1997, San Bonifacio

(vr), Miniato, 1998, pp. 60-65.

l’azione pedagogica di don lorenzo milani 79 ciò molto era presente anche alla scuola di Barbiana. Quasi sicuramente don Milani non conosceva le idee pedagogiche di John Dewey, dato che le opere del pedagogista americano cominciarono a circolare in Italia alla fine degli anni quaranta, quando cioè la scuola popolare di Calenzano – le cui caratteristiche ritroveremo in larga parte in quella successiva di Barbiana – era già stata ideata ed aveva mosso i suoi primi passi. Ne è una conferma indiretta una lettera della fine del 1962 a Giorgio Pecorini nella quale don Lorenzo richiede informazioni su « quale sia il più importante dei libri del Dewey ».

1 Da questa richiesta di consiglio si deduce che a quella data – quando cioè il ‘fare scuola’ di Barbiana aveva già da tempo caratteristiche ben definite – don Milani non conoscesse ancora il pensiero del pedagogista americano e non avesse letto i suoi testi. Pertanto, è molto più di un’ipotesi pensare che Dewey e don Milani procedano a lungo su strade senza punti d’incontro, arrivando in modo indipendente l’uno dall’altro ad alcune convinzioni comuni riguardo all’insegnamento. E ciò è tanto più significativo se si tiene conto del contesto decisamente diverso tra la Chicago di fine Ottocento e la Barbiana della metà del secolo successivo. La scuola di Barbiana era insomma una scuola che mirava ad affrancare il povero dall’ignoranza e a metterlo in grado di esercitare effettivamente la sua sovranità nella società civile. Era un modo questo di restituirgli la sua fisionomia a tutto tondo ed emanciparlo da quello status che potremmo definire di ‘una dimensione’, per usare un’espressione di Herbert Marcuse ;2 naturalmente con la sostanziale differenza che se per il filosofo della Scuola di Francoforte l’appiattimento è determinato dall’automazione e dall’organizzazione della società industriale, per il priore di Barbiana è causato dall’isolamento culturale di una società contadina collocata ai margini della vita civile. L’esperienza educativa della scuola, nell’ottica barbianese, è in funzione del cambiamento della realtà ; in quanto tende ad emancipare il povero rendendolo indipendente nel giudizio e capace di esprimersi ; in altre parole trasformandolo da suddito a sovrano. Un termine quest’ultimo usato appositamente per sottolineare la capacità del cittadino di esercitare a pieno i propri diritti e che per ciò si ricollega al concetto di sovranità popolare che, a partire dagli illuministi e da Rousseau in particolare, rappresenta il principio giuridico sul quale si basa la letteratura costituzionale moderna, compresa la Costituzione della Repubblicana Italiana. Interessante risulta anche l’individuazione delle matrici culturali sul tema della pace, che tanta parte ha nel pensiero e nell’opera dell’ultimo segmento di vita di don Milani. Per il priore di Barbiana anche il problema dell’annullamento dei conflitti può trovare soluzione solo utilizzando lo strumento privilegiato dell’educazione : la scuola. Le guerre sono il frutto non solo di chi dà ordini in tal senso, ma anche di chi quegli ordini accetta passivamente, magari creandosi l’alibi del rispetto gerarchico per sottrarsi alle proprie responsabilità. A questo riguardo valore esemplare assume la riflessione di Erich Fromm, il quale in Escape from Freedom individua uno dei meccanismi di fuga dalla libertà dellamassima importanza sociale nella rinuncia alle proprie responsabilità mediante la scelta di un appiattimento nel conformismo.3 Un’impostazione del problema certamente significativa è anche quella proposta dalla filosofa tedesca Hannah Arendt, la quale ne La banalità del male sostiene che la logica dell’obbedienza nei confronti di ‘ordini superiori’ porta

1 Lettera a Giorgio Pecorini, Barbiana, 5 novembre 1962, in Lorenzo Milani, I Care ancora, Bologna, emi, 2001, p. 256.

2 Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, tit. orig. One-

Dimensional Man. Studies in the ideology of Advanced Industrial Society, Boston, Beacon Press, 1964 ; trad. it. L.

Gallino e T. Giani Gallino, Torino, Einaudi, 1967.

3 Erich Fromm, Fuga dalla libertà, tit. orig. Escape from Freedom, New York, Holt, Reinehart and Winston,

1941 ; trad. it., di C. Mannucci, Milano, Mondadori, 1993, p. 149 e passim pp. 149-164. individui che erano prima – e lo saranno dopo – ‘terribilmente normali’ a privarsi della loro autonomia di giudizio e compiere atti criminosi senza avvertire alcun senso di colpa.1 Interessante poi è anche quanto afferma in proposito il filosofo e scrittore statunitense Henry D. Thoreau. Nel saggio La disobbedienza civile (1849),2 Thoreau sostiene che è doveroso non rispettare le leggi quando queste vanno contro la coscienza e i diritti dell’uomo. Si tratta di un’analogia di pensiero così calzante da risultare addirittura sorprendente, se si pensa che non vi è traccia alcuna della sua conoscenza da parte di don Milani. Il rifiuto di obbedire ad ordini moralmente e cristianamente inaccettabili non deve però indurre a pensare che don Milani avesse una nozione di pace passiva, come mero stato di

‘non conflitto’. Per lui la pace si costruisce non solo con atteggiamenti di resistenza e di non collaborazione, ma anche operando concretamente in tale direzione. Nel pensiero e nell’azione di don Milani dunque la pace diventa un obiettivo cui tendere, partendo dalla trasformazione interiore dell’uomo. Questa connotazione teleologica richiama molto da vicino il senso di un versetto evangelico del Cantico di Zaccaria, nel quale l’anziano sacerdoteannuncia la venuta di Gesù, parlando di « un sole che sorge, per (…) dirigere i nostripassi sulla via della pace ».3 Se è lecito pensare alla presenza in don Milani di un simile sostrato teologico, non meno significativa risulta l’esistenza in lui di un forte afflato civico e sociale che si esprime nell’individuazione di mezzi concreti perché quell’obiettivo possa essere raggiunto. In questo senso è di nuovo la scuola, quale privilegiato strumento educativo, a svolgere una funzione insostituibile. Essa infatti oltre a « dare la parola alle coscienze », deve fornire gli individui di mezzi espressivi anche di portata sovranazionale. Le lingue straniere, che tanta parte avevano nell’esperienza didattica di Barbiana, assumono un rilievo decisivo nella costruzione della pace, in quanto permettono di entrare in contatto con realtà economiche, sociali e culturali diverse dalla nostra. Quanto questo aspetto sia rilevante viene sottolineato anche da Jean Piaget, il quale afferma che « penetrare nella psicologia degli altri popoli » è « un obbligo », perché ciò evita l’isolamento, che rappresenta una condizione di estremo rischio « in un mondo in cui tutto è concatenato economicamente, politicamente e spiritualmente ». Quindi « la conoscenza degli altri » viene indicata « come condizione di sopravvivenza e di sicurezza nazionali e come mezzo di espansione dell’ideologia alla quale si tiene » (nel caso specifico, appunto, la pace).4 Pertanto, se la parola è il mezzo indispensabile per intendere e farsi intendere da chi normalmente ci sta più o meno vicino, le lingue straniere costituiscono il canale ed il codice per comunicare con chi da noi è più lontano. E se comunicare significa ‘mettere in comune’ idee, bisogni, sentimenti, desideri, vuol dire anche entrare in relazione, conoscersi e vedere nell’altro non più uno straniero, un estraneo, ma un simile, una persona da amare o, per lo meno, da rispettare. Parlando di analogie e matrici culturali non si può non rilevare come la riflessione milaniana in tema di pace si muovesse in perfetta sintonia con le posizioni giovannee contenute nell’enciclica Pacem in terris (1963) e con il dibattito conciliare i cui risultati furono codificati nel capitolo v della costituzione pastorale Gaudium et spes, significativamente intitolato La promozione della pace e la comunità dei popoli. 1 Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, tit. orig. Eichmann a Jerusalem, New York, Lotte Kohler, 1963 ; trad. it. di P. Bernardini, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 282. 2 Henry D. Thoreau, La disobbedienza civile, tit. orig. Resistence to Civil Governement poi Civil Disobedience, in E. Peabody, Aestethic Papers, New York, Putman & Co., 1849 ; a cura di F. Meli, trad. it. di L. Gentili, Milano, se, 1992. 3 Vangelo secondo Luca, 1, 78-79. 4 Jean Piaget, Che cos’è la pedagogia, tit. orig. De la pédagogie, Paris, 1998 ; trad. it. di A. Terni, Roma, Newton & Compton, 1999, pp. 121-122. ’azione pedagogica di don Lorenzo Milani.Ma quali sono le motivazioni che stanno alla base della cultura e delle posizioni di don Milani contro la guerra ? Come al solito, sono di carattere religioso e civile. Le motivazioni religiose prendono naturalmente le mosse da questioni di dottrina e di esegesi biblica. Il principio del primato della legge della coscienza e quindi, per un credente, della legge di Dio, rispetto a quella degli uomini, ha basi solide ad esempio nel Nuovo Testamento. Negli Atti degli Apostoli, Pietro e Giovanni si rifiutano di accettare l’ordine degli anziani, degli scribi e dei sommi sacerdoti della Giudea che intimavano loro di smettere di annunziare in Gesù la risurrezione dei morti.1 Da ciò deriva che il cristiano deve non obbedire ad un ordine se esso risponde alla volontà dell’uomo in contrasto con quella di Dio. Per quanto riguarda il problema più specifico della pace, occorre dire che esso occupa davvero tanto spazio nelle Scritture ; infatti, a parte il carattere rigorosamente pacifista di tutto il messaggio neotestamentario, a cominciare dal « Beati i costruttori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio » del discorso della montagna,2 anche nei libri del Vecchio Testamento vi sono costanti spunti in questo senso. Per tutti possiamo ricordare la predizione di Isaia (VII sec. a.C.), il profeta detto della pace perpetua : « forgeranno le loro spade in vomeri / le loro lance in falci / un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo / non si eserciteranno più nell’arte della guerra ».3 Le motivazioni di carattere civile per la propria battaglia pacifista vengono attinte da don Milani in primo luogo dalla Costituzione ed in particolare dall’articolo 11 che recita « L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli ». Ma attraverso un rapido excursus sugli ultimi cento anni di storia italiana a lui precedenti, egli non riesce a trovare una guerra fatta dagli eserciti che sia giusta e non sia « strumento di offesa » ; per cui l’articolo 11 del dettato costituzionale assume il carattere del ripudio della guerra tout cour. Il tema della pace si collega in don Milani in modo pressoché inevitabile a quello della non violenza. Se si tiene conto dello sforzo costante di essere coerente con il Vangelo non può essere priva di significato l’affermazione che « Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa ».4 Così come non prive di valore possono risultare le citazioni di letture ‘non violente’, come, oltre naturalmente quelle bibliche, il Critone e l’Apologia di Socrate di Platone, l’autobiografia di Gandhi,5 le lettere del pilota di Hiroshima ; queste ultime tutte pervase da un sentimento di inconsolabile rimorso.6 Vi è poi di grande importanza l’incontro e la collaborazione con Aldo Capitini, il pedagogista teorico dell’educazione alla non violenza. In conclusione, per don Milani, il suo essere al tempo stesso sacerdote, educatore e uomo attento ai problemi della società costituiva di fatto tre modi differenti di essere membro attivo di una collettività ; tre modi differenti, ma complementari e convergenti verso un unico fine : aiutare gli altri a crescere e a camminare con le proprie gambe. Una sorta di arte maieutica che richiama alla mente quel Socrate, che fu figura tanto cara a don Milani e che con lui ebbe più di un’analogia. Basti pensare che il filosofo ateniese fu

1 Atti degli Apostoli, 4, 19. 2 Vangelo secondo Matteo, 5, 9. 3 Isaia, 2, 4.

4 Risposta di don Lorenzo Milani ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11.2.1965 in

L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di don Milani, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina,

1983 (1a ed. 1969), p. 12.

5 Mohandas Karamchand Gandhi, La mia vita per la libertà. Tit. orig., An Autobiography or the Story of my

experiments with truth, Ahmedabad, Navajivan Trust, s. d. ; trad. it di B. V. Franco, Roma, Newton Compton, 1973.

6 Claude Eatherly, La coscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e di Günther

Anders, tit. orig. Off limits fur das Gewissen : der Briefwechsel zwischen dem Hiroshima-Piloten Claude Eatherly und

Günther Anders ; trad. it. R. Solmi, Torino, Einaudi, 1962.

Accusato di empietà e di corruzione dei giovani, cioè, in termini più moderni, di essere contro la religione ufficiale e di essere un cattivo maestro e per questo condannato. Ma anche don Milani nella Lettera ai Giudici – che rappresenta la sua Apologia – fu costretto a difendersi dall’accusa di essere un cattivo sacerdote ed un cattivo maestro e pure lui, sostanzialmente per questo, fu condannato. La morte precoce, giunta all’età di 44 anni, pietosamente gli risparmierà l’umiliazione di una metaforica nuova bevanda agli estratti di cicuta. (B.B.)

 Caro Bruno, nel ringraziarti per averci inviato questa bella, profonda e copiosa nota sul pensiero di don Lorenzo Milani, ti voglio raccontare brevemente una mia piccola storia, di come la strumentalizzazione e la politica è entrata in scena sul pensiero di don Lorenzo.

Lo conobbi casualmente agli inizi degli anni ’60 (ero andato a Barbiana per fare un articolo su la Nazione di un ingegnere tedesco che abitava lì vicino e che aveva inventato una nuova macchina trebbiatrice) e dopo un pò di tempo scrissi alcuni articoli sulla scuola di Barbiana, naturalmente, come al solito, andati persi.

Un giorno vidi un amico che mi rimproverò per scrivere sui preti e sulla chiesa; lo stesso  amico, dopo 40 anni, lo rividi con tanto di bandiera sulle spalle ad una marcia a Barbiana in onore di don Milani. Quando gli ricordai quello che mi disse molti anni prima, restò di stucco, non mi rispose, continuò a camminare, ed io, dato che sono rimasto sempre “io”, ho continuato  a scrivere su preti e sulla Chiesa! Cari saluti e complimenti.

Aldo Giovannini

Alcune immagini da inserire a corredo in questo articolo

 

Nella foto (qui sopra): Una “inedita” veduta del 1869 della Chiesa Prioria di Sant’Andrea a Barbiana, suffraganea della  Pieve di San Martino a Scopeto, opera del pittore Ferdinando Folchi di Firenze:

 

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