Nel panorama degli antichi negozi di artigiani in Borgo San Lorenzo ci sono state delle variazioni piuttosto importanti. Come ad esempio la Pasticceria Cesarino che è stata ceduta ad un nuovo proprietario il quale ha integrato anche dolci tipici siciliani. Sempre in tema di "variazioni" dobbiamo segnalare un nuovo ingresso nel laboratorio della Pasticceria Valecchi, e precisamente Tommaso Lucii (nipote di Cesarino), che probabilmente si trova più a suo agio nella produzione di dolci locali, piuttosto che le delizie siciliane.
Quindi una squadra rinnovata, un'arte pasticcera che vede integrata la lunga storia della Pasticceria Valecchi, portata avanti dalla passione e maestria di Francesco Belli, la professionalità di Tommaso Lucii il tutto coadiuvato dai collaboratori Cristian Pantuliano e Calamini Mauro, che continueranno a deliziare i palati dei Mugellani e non solo.
Con l'occasione di segnalare questa nuova compagine di artigiani pasticceri, ci arriva in redazione una lunga lettera da parte di Piero Valecchi che ama definirsi "ultimo rampollo maschio della più antica pasticceria mugellana", che ci offre uno spaccato storico della nascità della pasticceria grazie a suo nonno Armido e di come funzionava nel secolo scorso. Quindi mettetevi comodi perché la lettura è lunga, ma molto interessante.
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Testo di Piero Valecchi
Una pasticceria fiorentina a cavallo tra la prima e la seconda metà del Novecento.
Sotto l’effetto vagamente stupefacente della mia musica, mi sono deciso a cucinare un’altra “cavolata”, che spero, in un lontano futuro, sarà assaggiata e apprezzata dalla bellissima discendenza che ho avuto l’onore d’impastare.
Io sono uno degli ultimi rampolli maschi della (forse) più antica Pasticceria del Mugello.
Come pochi sanno, l‘attività fu aperta nel lontano 1916 da mio nonno Armido, lo stesso anno della nascita del suo primo figlio, ovvero mio babbo Osvaldo. Armido aveva imparato l’arte nelle migliori pasticcerie di Firenze, dove mi raccontava, con orgoglio, che “l’apprendista doveva pagare per apprendere il mestiere”.
Il negozio fu aperto nella centrale piazza Cavour, angolo Corso Matteotti a Borgo San Lorenzo, dove per molti anni ha prosperato una nota gioielleria (ciao Mario). Ma si sa, i gioielli e gli orologi occupano poco spazio, mentre per il nonno il problema era proprio la superficie di un negozio talmente ristretto che poteva paragonarsi ad un banchetto del mercato settimanale. I dolci che preparava venivano cotti presso un vicino panificio, per ritornare a piedi (sic!) al negozio di vendita.
Con sacrificio e tenacia, gli affari decollarono, e il nonno poté acquistare a pochi metri di distanza la proprietà in via Mazzini , dove tuttora risiede la storica pasticceria. Lì nacquero il negozio, il laboratorio e l’abitazione della famiglia, secondo il principio degli artigiani - commercianti del primo novecento che raccomandava “uscio e bottega” alla propria attività.
Io, con la mia famiglia andai ad abitare insieme ai nonni, sopra la pasticceria a l’età di otto anni, nel 1960 in seguito ad un forte terremoto che aveva in parte lesionato l’abitazione precedente.
Riepilogando, la nuova proprietà aggettava su due strade: via Mazzini dove si trovava e si trova tuttora il negozio di vendita, e parallelamente, ma più in basso per l’andamento di leggera discesa del terreno, in via Pasquino Corso dove si trovava il magazzino delle fascine per alimentare il vecchio forno a legna, con accanto il laboratorio che attualmente ha inglobato lo stesso magazzino, non più necessario al ricovero del legname da ardere. Tuttavia la proprietà con l’abitazione ai piani superiori, si sviluppava prevalentemente verso l’alto per ben sei piani, con dislivelli disordinati quasi come una casa-torre medievale. E qui mi sovviene il desiderio di descrivere cos’era un laboratorio di pasticceria a quei tempi, e come funzionava il lavoro, perché a ripensarci bene, oggi mi paiono eventi quasi impossibili, pur avendoli vissuti direttamente.
Innanzitutto la logistica con la scarsa attrezzatura.
Dal negozio, tramite una porta dietro al banco di vendita, che oggi è ridotta ad una piccola finestrella, si scendevano pochi gradini e si accedeva ad un piccolo ambiente di passaggio, dove a destra c’era un muro divisorio, mentre a sinistra troneggiava una “ghiacciaia”, un po’ simile a quei vecchi frigoriferi di legno dei negozi di alimentari di molti anni fa. Poco spazio rimaneva per sacchi di farina e zucchero, ed altri semilavorati per pasticceria. Fatti pochi passi si accedeva alla stanza del laboratorio vera e propria. Se avessimo fatto una repentina inversione a U verso sinistra, saremmo entrati nella stanzetta del forno, dove esso presentava la sempre calda bocca, dotata di una apposita chiusura di ferro annerito. Di lato, posti in senso longitudinale, appoggiati a l’angolo, tutti gli attrezzi per gestirne l’uso: pale per infornare e sfornare, aste per spostare il fuoco o la cenere, spazzole per la pulizia del piano di cottura, ecc.
Nello stesso ambiente, forse per la presenza delle cappe dei tiraggi dei fumi, sopra un ripiano in muratura, c’era un grosso fornello a gas ad un fuoco, con una enorme padella per friggere bomboloni, cenci, o frittelle di ogni tipo. E questo merita una digressione.
Quando friggevano i bomboloni, i fumi ed i profumi de l’olio di frittura si spandevano per tutti gli ambienti, e poiché noi abitavamo ai piani superiori che erano collegati col laboratorio con scale interne a chiocciola e passaggi segreti, nonostante la nostra attenzione nel chiudere le porte, impregnavano tutti i nostri vestiti. Ho fatto tutto il liceo, e parte dell’università emanando un intenso profumo di bomboloni caldi. Nessuno però si è mai lamentato. Il professore di idrologia medica mi chiamava direttamente “pasticcere”. Un compagno di studi sosteneva addirittura che facevo ingrassare!
Ma torniamo alla nostra logistica.
Presentando le spalle al forno, al centro della stanza troneggiava un grande tavolo di legno con il piano di marmo, dove avvenivano tutte le lavorazioni: dagli impasti da cuocere, alla decorazione dei dolci più raffinati. Adagiate contro la parete di sinistra c’erano le macchine: una montatrice a cinghia, antidiluviana (per montare panna ,uova,miscelare, ecc ), accanto un’altra impastatrice orbitale, e una impastatrice a forcella per i lieviti.
Sulla parete opposta c’era una macchina chiamata “i rulli” costituita essenzialmente da due cilindri (di pietra?) contrapposti, che girando insieme verso il basso riducevano le scaglie di cioccolato in fogli sottilissimi che andavano a guarnire quel magnifico dolce di panna e cioccolata, chiamato “fedora”. I rulli servivano ovviamente anche per altri impieghi, come per esempio triturare mandorle, nocciole, ed altro. Sempre sulla stessa parete vicino alla porta che sbarca in via Pasquino Corso, ricordo un comune fornello a gas, dove gli adulti relegavano i più piccoli (io , e qualche cugino) e gli apprendisti, per il lavoro più noioso che essere umano possa immaginare dopo la pulitura delle teglie, ovvero “scaldare il fondente”.
Questa mansione, era semplice ma pericolosissima perché consisteva nel rendere lentamente caldissima e fluida la glassa di zucchero, che serviva per guarnire paste e dolci di ogni tipo, ma in particolare i bignè. Se disgraziatamente schizzava sulla pelle nuda provocava ustioni di terzo grado. Un po’ come ustionarsi con lo zucchero caramellato mentre cuoce per fare il croccante. Ma, l’ultimo anello dei lavoratori di pasticceria aveva anche altre mansioni non troppo gradite. Occorreva pulire molto bene le teglie dove al mattino venivano cotte le brioches e le paste da forno. Dopo averle ripulite con raschietto (utilissimo utensile da imbianchino ) e straccio, occorreva ungerle con una sostanza grassa in modo che successivamente il prodotto appena sfornato non rimanesse attaccato finendo per rompersi al momento della raccolta. Il nonno usava il lardo di maiale che comprava dai contadini della zona, in grosse confezioni sacciformi, stile caciocavallo. Oltre alla ripulitura e unzione delle teglie, anche le formine di metallo dove venivano preparate le paste da forno, tipo budino di riso, crostatine, cestini , ecc, dovevano subire le stesse funzioni: pulitura e unzione.
Quindi, partendo dalle mansioni più umili, l’apprendista o il familiare non direttamente coinvolto nella azienda di famiglia per motivi di età o di studio (io), ma che tuttavia era obbligato -(con la violenza), nei periodi di maggior lavoro a dare una mano, imparava il mestiere. Il primo comandamento che t’insegnavano: fare e pulire!
Questo era anche il senso di “azienda artigiana a conduzione familiare”.
Infine, addossato al muro che separa il laboratorio da via Pasquino Corso, ed accanto alla porta, c’era un grande acquaio dove venivano lavate e rigovernate le innumerevoli stoviglie utilizzate nella seduta (in piedi) di lavoro.
Questa era l’attrezzatura meccanica di base che potremmo definire “di grosse dimensioni”. Esisteva poi, ovviamente tutta una dotazione di strumentazione che potremmo definire come “minuteria”, che svariava dai coltelli alle spatole, taglierini, raschietti, cucchiai, fruste da pasticceria, sac a poche (che chiamavamo “calza”) con relativi beccucci. Il legno contribuiva con mattarelli e mestoli di tutte le forge. Il set da cucina consisteva in pentole e pentoline di tutte le misure e di grossi pentoloni semisferici di rame i più antichi, e d’acciaio inox i più moderni, che venivano chiamati “zuccotti”, mentre oggi vengono chiamate “bastardelle semisferiche”. Ricordo che quelle di rame andavano periodicamente stagnate all’interno e che non era assolutamente facile trovare chi eseguiva tali lavorazioni.
In pasticceria gli ingredienti di base che non possono mancare sono: farina, zucchero, burro o margarina, latte, panna, e uova. Questi erano e sono gli ingredienti senza i quali la pasticceria non esiste. Al tempo di cui parlo non era facile rifornirsi per tutto l’anno, perché molti di questi prodotti venivano acquistati in loco da piccoli produttori. Le uova erano un problema, poiché la produzione era intermittente. Mio nonno aveva due o tre grossi orci imprunetini, che riempiva delicatamente con le uova immergendole in un liquido vitreo e denso che acquistava in farmacia, e che veniva chiamato “silicato”, con cui si poteva conservare le uova fino ad un anno. Anche il latte e la panna, di eccezionale qualità venivano acquistati sul territorio. Ovviamente oltre a questi, occorrevano un’altra serie di prodotti che l’industria aveva iniziato a fornire come estratti alcolici per fare le “bagne” di dolci e torte. Si trattava di alcolici a 70 gradi, al sapore di mandarino ,arancia, maraschino, ecc, che venivano miscelati a caldo con zucchero ed acqua fino a produrre un liquore dolce con una gradazione intorno ai 14–15 gradi. Con esso, tramite una spugnetta o un pennello si bagnava il pan di Spagna, che noi chiamavamo “pasta reale”, per iniziare la torta.
E poi, marmellate, canditi di frutta e guarnizioni di ogni tipo, codette di zucchero per contornare le torte, estratti di profumi e sapori, vaniglia, diverse specie di cioccolata, glasse, mandorle, nocciole, pinoli, anacarde, ecc. Persino gli sposini di plastica per mettere in cima alle torte nuziali a più piani che chiamavamo “alzate”. Insomma, tutta una serie di prodotti che era già numerosa all’epoca, ma che oggi è diventata sterminata. Il grande tavolo centrale, dall’imponente copertura di marmo, diventava il palcoscenico di ogni lavorazione.
La preparazione della pasta sfoglia era un vero atto di forza. Un elastico pastello, ottenuto impastando semplice farina, acqua e sale, dopo un breve riposo veniva spianato in modo grossolano. Quindi vi si poneva al centro una enorme massa di burro ammorbidito. Si tiravano in alto e si univano i margini del pastello a mò di fagotto, in modo da coprire completamente il burro. Quindi con vigorose mazzate, date da mattarelli enormi, iniziava la spianatura. Tirare la sfoglia, nel senso di stendere la pasta, era una fatica notevole. Una volta realizzata una buona prima tiratura, la pasta veniva ripiegata su se stessa, e si procedeva ad un’altra spianatura. Questa lavorazione veniva ripetuta innumerevoli volte, perché ho saputo molto dopo, serviva a far incamerare aria alla pasta, che si sarebbe trasformata in leggerezza e fragranza dopo la cottura. Oggi questa faticosa lavorazione viene effettuata da sfogliatrici professionali molto più comode e veloci.
La pasta frolla invece, farina, zucchero, uova, burro e aromi, veniva lavorata totalmente e lungamente a mano. Impastata come solo l’entusiasmo di un bambino avrebbe fatto, in realtà per la sua mole, era riservata alla forza ed alla noia dell’adulto, a cui toccava un lavoro ripetitivo. E poiché doveva soddisfare il fabbisogno di una settimana, veniva avvolta in un panno pulito e riposta in frigorifero. Era cotta giorno per giorno in base alle necessità del negozio. Costituisce la base di innumerevoli biscotti. Forma il fondo delle crostate, e soprattutto lo scafo di tutte la paste da forno.
Il pan di Spagna, ovvero la “pastareale” costituisce la base delle torte più comuni e delle pastine a taglio più ricercate. Ricordo ancora quando una pastina veniva venduta al banco a 25 lire, in euro sarebbero circa 0,012! Anche questa preparazione veniva prodotta in vari formati, in teglie circolari o quadrate, una o due volte a settimana, perché prevedeva una lavorazione abbastanza lunga e delicata per la montatura delle uova, ed il negozio doveva averla in disponibilità immediata per ordinazioni di torte tout court. Inoltre, tagliata a fette sottili, costituiva il rivestimento di un dolce fiorentino molto in voga in quegli anni, lo zuccotto, un semifreddo che ha ancora molti estimatori.
Ma tutto ciò non sarebbe potuto esistere se non ci fosse stata una gestione magistrale del forno a legna, che merita sicuramente una menzione particolare. Chi ha in mente un forno a legna per pizza, deve assolutamente scacciare questa idea.
Il forno per pasticceria doveva essere estremamente modulabile per adattarsi alle diverse cotture. Alcune preparazioni richiedono temperature elevate, altre al contrario temperature molto basse, per cui non poteva essere utilizzata legna in grosse pezzature che bruciasse a lungo. Ecco allora la necessità di legna fine, molto secca e raccolta in fascine in modo da essere facilmente maneggevole. Queste permettevano le alte temperature con una intensa fiammata iniziale, in seguito con l’esaurimento veloce del combustibile legnoso, e con adatti accorgimenti, si poteva disporre di temperature più o meno contenute. Ad esempio le meringhe, gli spumini, ed i dischi per marengo, dovevano essere cotti a temperatura molto bassa, pena una sgraziata abbronzatura che sapeva di bruciaticcio. Ogni lavorazione in pasticceria ha la sua temperatura di cottura. Ma io non ricordo a quel tempo termometri o altri aiuti tecnologici. Tutto era demandato al “pasticcere fuochista”, signore del forno e delle sue prestazioni. Sbagliare una cottura significava gettare via una infornata di prodotto, con notevole danno economico e perdita di tempo. Credo che nessuno abbia mai domato un forno a legna a fascine come mio babbo Osvaldo. La sua arte, e la sua conoscenza del forno gli permettevano di fare una “torta paradiso”, antica torta da forno fiorentina, che personalmente non ho più gustato neppure nelle migliori pasticcerie della città.
Poi, intorno al 1965 arrivò il modernissimo forno ad olio combustibile (nafta), costruito proprio nel magazzino dedicato alle fascine. Anche se oggi non esiste più, i forni sono tutti elettrici, era dotato di termometri, orologi, e di tutte le diavolerie moderne che si portarono via un bel pezzo di poetico ma faticoso passato.
Un accenno meritano anche le creme di base.
Erano fondamentalmente tre: crema pasticcera, crema a burro, panna montata.
La crema pasticcera era a base di tuorli d’uovo, latte, zucchero, vaniglia. Andava portata a bollitura, e ricordo ancora il mio babbo seduto di fronte ad un enorme fornello a gas posto a terra che scaldava uno zuccotto di rame enorme, mentre con la frusta e molta fatica rimestava perché non si attaccasse al fondo, quella sorta di dolce e gialla lava che ribolliva minacciosa e profumata, che sarebbe diventata il “condimento” principale di molte preparazioni. Oggi, ovviamente, macchine ad hoc fanno questo lavoro senza nessun pericolo e nessuna fatica.
La crema a burro, per me era, e rimane un mistero. Veniva realizzata a base di margarine, per cui era molto stabile a temperatura ambiente e di lunga durata. Presso la nostra pasticceria veniva utilizzata soprattutto per le decorazioni.
Infine la panna montata. Panna fresca del Mugello, zucchero a velo, e vaniglia, e sotto l’azione violenta della frusta della montatrice, nasceva l’eccellenza della bontà assoluta che solo la semplicità e la genuinità possono partorire.
Spesso la crema e la panna venivano miscelate con semilavorati tipo cioccolato, nocciola, torroncino, ecc, dando vita a variazioni molto gustose.
La miscelazione di crema pasticcera e panna montata produceva la “crema chantilly all’italiana”, detta anche “diplomatica”. Anche con essa si poteva procedere a numerose variazioni di sapori. Infine mi sento in dovere di ritornare sulla crema a burro, che, cenerentola del gusto, permetteva un uso importantissimo: la scrittura su torte! “ Auguri a Pinco Pallino”, “ Buon Compleanno”, “Buone Feste “, ecc
In questo caso il pasticcere doveva saper fare il “cornetto “. Una sorta di cono di carta lucida impermeabile e arrotolata, che riempiva di crema, e di cui decideva la grandezza del vertice dal quale usciva il filo di crema che andava a formare il messaggio, o la decorazione.
Oggi penso che non si possa fare il pasticcere senza essere imparentati con l’Arte: in questa pasticceria mio nonno Armido nel suo tempo libero, amava modellare la creta, mio babbo Osvaldo leggeva la musica, e suonava egregiamente il sassofono ed altri strumenti. Mio fratello Alfredo ama dipingere. Francesco, attuale pasticcere in attività, colleziona tutti quei premi ai vari concorsi di pasticceria, che solo la passione e la dedizione alla creatività, possono spiegare. Io ho solo fatto cose diverse. Forse neppure troppo, essendo tutte rivolte al benessere della persona.
Piero Valecchi