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Obiettivo: cancellare il male. Le ragioni profonde della guerra in Medio Oriente tra Israele e Iran

Mentre Israele si prepara a colpire l'Iran e le manifestazioni pro-Palestina aumentano. Un articolo di Paolo Insolia

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conflitto israelo-iraniano conflitto israelo-iraniano © OKai
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Dopo che Israele, circa dieci giorni fa, ha ucciso in un bombardamento a Beirut Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah - l'organizzazione paramilitare islamista di derivazione sciita fondata nel 1982 in Libano, considerata dall'occidente terroristica e divenuta poi un vero e proprio partito politico che da decenni controlla gran parte del Paese dei Cedri - l'Iran ha deciso di attaccare lo stato ebraico, suo acerrimo nemico, con il lancio di 180 missili balistici, quasi tutti intercettati dal sistema antimissilistico israeliano Iron Dome. La decisione del regime teocratico di passare all'attacco è anche conseguenza dell'incursione nel sud del Libano dell'IDF, l'esercito israeliano, in seguito ai ripetuti attacchi missilistici da parte dei miliziani di Hezbollah nel nord del paese ebraico, che a fine luglio scorso hanno centrato un campo da calcio in cui hanno perso la vita dieci bambini.

La pioggia di missili iraniani ha causato una sola vittima palestinese e non ha provocato danni rilevanti, ma Israele ha promesso vendetta. Non sappiamo quale sarà la portata della sua risposta, se si limiterà a colpire obiettivi militari oppure siti nucleari e personalità importanti della Repubblica islamica o di movimenti antisionisti presenti sul suo territorio, come accadde per l'uccisione in un bombardamento a Teheran di uno dei massimi esponenti di Hamas, Isma'il Haniyeh. Il mondo attende la risposta del governo di estrema destra di Netanyahu, primo ministro di Israele poiché, a seconda della sua devastazione. potrebbe portare a una dichiarazione di guerra totale, con conseguenze devastanti per il Medio Oriente. Oltretutto un simile scenario vedrebbe quasi certamente l'entrata in scena di altri attori internazionali, tra i quali Stati Uniti e Russia, già impegnati sul fronte ucraino.

Ma facciamo un passo indietro. Perché l'Iran ha attaccato Israele dopo la morte di Nasrallah e l'invasione del Libano? Questa è una domanda fondamentale per capire il conflitto nella sua interezza e riuscire così a collegare gli eventi. Ebbene Hezbollah, insieme ad altre organizzazioni che hanno come nemico in comune Israele e Stati Uniti, tra i quali Hamas - che controlla la Striscia di Gaza ed è responsabile dell'attacco a Israele avvenuto il 7 ottobre scorso, da dove ha avuto inizio l'ennesimo conflitto in Terra Santa - e il movimento yemenita degli Houti, formano il così detto Asse della Resistenza, sostenuto dal regime iraniano.

Israele è un paese di poco meno di dieci milioni di abitanti circondato da nemici che ne vogliono la cancellazione. Sembra che questa verità non sia del tutto compresa in occidente, che parla del riconoscimento della Stato di Palestina come unica soluzione al conflitto, che va avanti dal 1948, anno della fondazione dello Stato di Israele. Lo stato palestinese non è riconosciuto da quasi tutti i paesi europei e dagli Stati Uniti, ossia dal blocco occidentale, stretto alleato di Israele. Riconoscerlo ufficialmente, come hanno fatto Svezia, nel 2014, e Irlanda, Norvegia e Spagna nel 2024, significa andare incontro alla soluzione due popoli, due stati. Non viene mai spiegato però quali sarebbero i confini dei due paesi; quelli che vennero delineati dall'ONU nel 1947, e che furono rifiutati dalle nazioni arabe e dalla leadership palestinese dell'epoca, portando alla guerra arabo-israeliana del 1948 e alla guerra dei sei giorni nel 1967, con la conseguente occupazione de facto di Israele di alcuni territori che nel piano spettavano al popolo palestinese? Oppure includere nello Stato Ebraico le sue colonie, costruite a scapito dei palestinesi? O, altra ipotesi, delineare nuovi confini?

Con occupazione si intende la presenza costante di militari in un territorio straniero, che limita cosi la sovranità dello stato occupato. Israele nei primi anni duemila costruì un muro all'interno della Cisgiordania, che divide le aree palestinesi da quelle ebraiche. Il muro penalizza i palestinesi sotto vari aspetti, tra cui - ed è l'aspetto più importante - una minore libertà di spostamento. Tutto questo crea nella popolazione araba dell'area in questione ancora più risentimento nei confronti degli occupanti, che a loro volta aumentano di giorno in giorno il già elevatissimo livello di sorveglianza. Un simile muro percorre la Striscia di Gaza, segnando la frontiera con Israele.

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Se l'occidente riconoscesse la Palestina come entità statale, si avrebbero due conseguenze: la prima a favore dello Stato di Palestina, che potrebbe intessere relazioni diplomatiche con altri paesi, rafforzando la sua legittimità come stato sovrano - ricordiamo che la Palestina è riconosciuta come stato da 145 membri delle Nazioni Unite su 193 -. La seconda sfavorirebbe Israele che, per non rischiare un pericoloso isolamento internazionale, dovrebbe rivalutare le sue politiche espansionistiche nei territori palestinesi. Nel maggio scorso gli Stati Uniti hanno posto il veto in Consiglio di sicurezza per l'entrata della Palestina nell'ONU, ad oggi paese non membro ma con status di osservatore, che gli avrebbe consentito di rafforzare la sua posizione di stato indipendente e sovrano nei confronti di Israele.

La Dichiarazione di Indipendenza Palestinese venne annunciata da Yasser Arafat il 15 novembre 1988, diventando così presidente del paese, dopo decenni di instabilità nel quale il territorio palestinese - conquistato in parte da Israele in seguito al primo conflitto con i paesi arabi avvenuto nel 1948 - venne posto inizialmente sotto il controllo di Giordania, Egitto e Siria, e occupato poi militarmente dal paese ebraico dopo la guerra dei sei giorni combattuta nel 1967. I confini di tale dichiarazione si riferivano a quelli posti nel 1947 dalle Nazioni Unite. Nel 1993 vennero siglati gli Accordi di Oslo, per porre fino al conflitto arabo-israeliano, ma a seguito dell'assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin da parte di un estremista ebreo contrario agli accordi, e al rifiuto da parte di organizzazioni palestinesi quali Hamas, la pace non venne mai raggiunta.

A questo punto la vera domanda è: siamo sicuri che con il riconoscimento generalizzato dei due stati, con la fine dell'occupazione israeliana e con il ritiro delle centinaia di migliaia di coloni dai territori palestinesi, il conflitto avrà fine? Per rispondere bisogna aver chiaro che qualunque scelta governativa non modificherà la mentalità estremista di una grossa fetta di popolazione, presente in entrambi i popoli e comune a gran parte del mondo arabo, Iran in testa. Da una parte e dall'altra molti personaggi politici e cittadini comuni pensano che chi vive oltre la barriera di separazione, presidiata ventiquattr'ore su ventiquattro da cecchini, non abbia il diritto di vivere lì, e i motivi sono innumerevoli, che vanno dal "c'eravamo prima noi" al "non c'è posto per i terroristi in Terra Santa".

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Ciò che ha compiuto Hamas con l'attentato del 7 ottobre scorso, e la conseguente offensiva militare del governo di Netanyahu nella Striscia di Gaza - responsabile della morte di oltre 40.000 civili palestinesi - sono il tentativo di cancellare ciò che viene inteso come male radicale. Per Hamas e i movimenti antisionisti dei paesi del mondo arabo, i cittadini israeliani sono i carnefici, come lo furono gli schiavisti degli Stati Confederati d'America agli occhi dei neri acquistati in Europa o in Africa per essere collocati un altro continente e lavorare come animali da soma senza alcun diritto e retribuzione. Al tempo stesso, per il governo di Netanyahu i miliziani di Hamas, di Hezbollah e di tutti coloro che vogliono la distruzione di Israele, sono terroristi con cui non è possibile trovare un accordo, e vanno quindi uccisi, uno per uno.

Arriviamo ora al fulcro del discorso. Sui mass media sentiamo spesso dire: "Israele ha tutte le ragioni di difendersi, ma non sono d'accordo con ciò che sta compiendo Netanyahu ai danni dei civili di Gaza". Opinione del tutto condivisibile, però viene sempre omesso come il primo ministro dovrebbe comportarsi, e quali decisioni dovrebbe prendere in merito. Va considerato che per il governo in carica di Israele, Hamas non dovrà più rappresentare una minaccia per il paese, e deve quindi sparire, al costo di coinvolgere nei bombardamenti civili del tutto innocenti. Cancellare il male radicale comporta sacrifici, perdite, lutti. 

Proporre soluzioni definitive a un conflitto cosi difficile sarebbe un compito alquanto arduo, ma possiamo porci alcune domande, sperando che aprano a nuovi spunti e riflessioni: Netanyahu avrebbe dovuto rinunciare a colpire Hamas, e lasciare che i terroristi organizzassero altri attentati simili a quello avvenuto il 7 ottobre, o avrebbe dovuto dare una risposta meno incisiva, per non allargare il conflitto in Libano, Yemen e Iran? Proviamo, almeno per un secondo, a metterci nei panni del governo in carica di Israele, e valutare ogni ipotesi.

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Andrebbe chiesto ai manifestanti delle manifestazioni pro-Palestina di questi ultimi giorni in molte città italiane se conoscono gli antefatti del conflitto che, è bene ribadirlo, vedono ragioni e torti da entrambi gli schieramenti in guerra. Un conto è manifestare per far sì che lo Stato di Palestina venga riconosciuto, che sia aiutata la popolazione di Gaza - stremata dalla fame, dalla sete e dalla perdita di parenti, amici e luoghi sicuri -, che vengano poste le condizioni per la pace e per la ricostruzione delle infrastrutture distrutte; un altro conto è per sostenere la posizione più intransigente di Hamas e della maggioranza dei paesi arabi, ovvero che Israele non deve esistere, e che il terrorismo, in certi casi, è legittimo. 

Quando in Europa ci fu il periodo degli attentati di matrice islamica da parte dell'ISIS - l'organizzazione terroristica che vide la nascita di un vero e proprio califfato in Siria e in Iraq - il blocco occidentale, insieme ad alcuni paesi arabi quali Arabia Saudita e Giordania, attaccò il suo territorio, causando la morte di migliaia di civili, tra cui bambini. Da parte di noi europei l'ISIS era considerato come il male assoluto, viste le turpi azioni che commettevano sul nostro suolo i terroristi islamici, rivendicate poi dallo Stato Islamico, e infatti non ci fu alcuna manifestazione pro-ISIS in Europa e negli Stati Uniti.

A questo punto domandiamoci: non è che il problema sono gli ebrei, considerati da sempre come la causa di ogni male? O il problema è il fatto che hanno più risorse dei palestinesi, e essendo più forti sia economicamente che militarmente sono necessariamente i cattivi? O tutte e due le ipotesi? Bisogna stare attenti a non fare l'errore di considerare Israele, a prescindere dal suo governo, come il male da perseguitare e da spedire all'inferno. In fondo era questa la promessa del regime nazista: un mondo libero dagli ebrei, la setta che strozza l'economia di tutti i popoli esistenti e si batte affinchè non esistano più le razze umane tramite opere di imbastardimento, come il marxismo, ideato da Karl Marx - filosofo e economista di origine ebraica - che non dava alcun valore alla razza degli individui - considerata da Hitler l'elemento fondamentale dell'identità di ciascuno - e desiderava un mondo libero da ogni identità statale. 

In definitiva, l'antisemitismo è uno spettro che può sempre materializzarsi. Manifestare è un diritto, ma bisogna avere ben chiare le idee che ci spingono a farlo, e soprattutto i limiti da non oltrepassare. Il rischio è di ripiombare agli anni del Novecento in cui vigeva la caccia all'ebreo. L'unico modo per far sì che ci sia una pace tra Israele e Palestina è che cambi la mentalità per cui "il mio vicino è il mio nemico storico". Per arrivare a ciò, bisognerà attendere ancora parecchio tempo, e sperare che ci sia una tregua al più presto.

Paolo Insolia

 

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