Oggi, 9 ottobre, a 61 anni di distanza, nel ricordo delle oltre duemila vittime, dei tantissimi bambini rimasti orfani e di chi ha visto la propria vita stravolta in un attimo, vorrei soffermarmi sul disastro della diga del Vajont per fare una riflessione a cuore aperto anche sui tanti disastri, più o meno naturali, che continuano a verificarsi, mietendo vittime con una frequenza allarmante. Una frequenza che viene spesso spiegata in modo semplicistico come dovuta ai "cambiamenti climatici", la foglia di fico dietro cui si nasconde tutto, forse anche molte colpe dell’uomo. La lezione del Vajont ha insegnato qualcosa?
Quell'immane tragedia, causata da un mix esplosivo di inadeguatezza e grossolani errori dettati dalla fretta e dall'avidità, ci racconta qualcosa, o siamo ormai troppo anestetizzati dal mantra dei cambiamenti climatici per cogliere che (molto) spesso, più che la natura, è l'uomo il vero responsabile? Cementificando, costruendo dove non si dovrebbe, violentando la terra...
Il disastro del Vajont rappresenta una delle pagine più tragiche della storia italiana, ma ciò che avvenne quella terribile serata è la plastica rappresentazione di come spesso le tragedie annunciate trovino davanti a sé sordi e ciechi, pronti a ignorare i segnali della natura. Ripercorro quindi la storia di quella sciagura affinché si possa riflettere.
Le origini
La diga del Vajont si trova nell'alta valle del Piave, al confine fra Friuli-Venezia Giulia e Veneto, nei comuni di Erto e Casso, in provincia di Pordenone, lungo il corso del fiume Vajont, affluente del Piave. L'idea di costruire una diga nella valle del Piave per sfruttarne le acque a fini energetici nacque all'inizio del Novecento, a seguito della rivoluzione industriale e dell'uso crescente di energia elettrica. Nel 1929 fu individuata la valle del Vajont come luogo ideale per realizzare il bacino idroelettrico, commissionato alla Società Adriatica di Elettricità (S.A.D.E.) di Venezia.
L'ingegnere Carlo Semenza venne incaricato di progettare l'opera. Il primo progetto, presentato il 22 giugno 1940, prevedeva una diga alta circa 200 metri, con una capacità di 50 milioni di metri cubi d'acqua. Tuttavia, il progetto fu presto sostituito da uno più ambizioso, noto come il "Grande Vajont", che innalzava la diga di altri 60 metri e triplicava la capacità del bacino a 150 milioni di metri cubi.
I dubbi e le polemiche
Nonostante il progresso e la volontà di apparire come una nazione in rinascita, l'Italia non volle o non poté dare ascolto ai dubbi e alle preoccupazioni che emergevano. Già nel 1959, la vicina diga di Pontesei, progettata anch'essa dall'ingegnere Semenza, era stata colpita da una frana che causò la morte di un operaio. Questo evento spaventò non poco i cittadini di Erto e Casso, che formarono un comitato per far sentire la loro voce, ma le loro preoccupazioni furono ignorate. La maestosa diga del Vajont venne completata comunque, in vista della nazionalizzazione dell'energia elettrica, e la S.A.D.E. accelerò il processo di collaudo per non perdere finanziamenti pubblici.
Il disastro
Alle 22:39 del 9 ottobre 1963, una frana di oltre 270 milioni di metri cubi di detriti rocciosi, larga più di 500 metri, precipita nel bacino artificiale a una velocità di 90 km/h. L'impatto generò un'onda alta oltre 250 metri, che scavalcò la diga e si abbatté sui paesi sottostanti, tra cui Longarone, causando la morte di circa 1.450 persone. Altri centri come Erto, Casso e Codissago subirono devastazioni simili, con un totale di oltre 2.000 vittime.
L'inchiesta e il processo
Dopo il disastro, il paese era sotto shock, ma partì subito un'inchiesta per determinare le responsabilità. Il processo si svolse tra il 1968 e il 1972. Solo due persone vennero condannate: Alberico Biadene, ingegnere della S.A.D.E., e Francesco Sensidoni del Ministero dei Lavori Pubblici. I risarcimenti furono assegnati solo dopo lunghi processi civili, conclusi nel 1999.
Il Vajont ha insegnato qualcosa?
Con le tecnologie e le conoscenze di oggi, una tragedia simile dovrebbe essere impossibile, ma è proprio questo il punto: già allora si sapeva che c’era un rischio. La tecnologia può aiutarci, ma la responsabilità è sempre dell’uomo. Ignorare i segnali, per avidità o incompetenza, significa ripetere gli errori del passato.
La lezione del Vajont, per onorare al meglio quelle vittime innocenti, dovrebbe ricordarci che quando i politici alzano le braccia di fronte a disastri naturali e incolpano il clima, spesso stanno nascondendo le loro responsabilità. Costruire dove non si deve, ignorare i segnali, lasciare la prevenzione al caso: tutto questo è inaccettabile. Io non ci sto, e in memoria delle vittime del Vajont, scelgo di riflettere e informarmi.